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Redazione
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• 30 Giugno 2022 – Redazione

Nel periodo elettorale i contributi di candidate e candidati sono benvenuti sulla nostra zattera secondo queste regole

Porre l’accento sull’origine geografica di “Babylon Berlin” non è questione di facile partigianeria né tantomeno di voler accordare un presunto primato artistico a una delle due sponde dell’Atlantico; molto più semplicemente, quando si parla d’industria audiovisiva – intesa come macchina culturale, in grado d’influenzare mode e gusti di mezzo pianeta – il divario tra le forze in campo rimane un dato di fatto incontestabile: ci sono gli Stati Uniti, poi vengono tutti gli altri. E se un lauto budget non fa necessariamente rima con qualità, è altrettanto ovvio che soggetti di una certa scala obbligano, volenti o nolenti, a confrontarsi con la cruciale variabile del vil denaro. Nel momento in cui un’opera si dimostra dunque capace di scardinare ogni paradigma, abbattere le barriere e, dal Vecchio Continente, guardare con fiducia a una platea internazionale, vale senz’altro la pena soffermarsi sulle circostanze che l’hanno resa tale.

Frutto dell’unione di forze tra la X-Filme Creative Pool di Tom Tykwer, ARD Degeto, Sky e Beta Film, coi suoi 40 milioni d’investimento complessivo, “Babylon Berlin” è la serie tedesca più costosa di sempre. Un prodotto che quanto a risorse non ha nulla da invidiare ai mastodonti d’oltreoceano, certo, ma il motivo per cui andrebbe vista, rivista, studiata e possibilmente presa ad esempio, risiede altrove. La ragione sottesa, di cui i soldi non sono che un pur fondamentale presupposto, sta nell’approccio.

Tratta dai romanzi di Volker Kutscher e ambientata nel tumultuoso periodo a cavallo tra le due Guerre, la vicenda vede un commissario di polizia con qualche demone di troppo al centro di un sordido intrigo dalle ramificazioni internazionali. Una storia di ricatti e meretricio, corruzione e malavita, sullo sfondo della crisi economica e delle agitazioni sociali che porteranno al sorgere di estremismi a entrambi i capi dello spettro politico (forze destinate a sfociare, di lì a breve, dove tutti sappiamo). E se il Terzo Reich è un momento storico che Cinema e televisione hanno esplorato in lungo e in largo, lo stesso non può dirsi della Repubblica di Weimar, parentesi tra due conflitti dove i prodromi del nazionalsocialismo suggeriscono in filigrana inquietanti parallelismi con la situazione odierna. Un’epoca di forti sconvolgimenti, ma anche di party selvaggi, edonismo sfrenato (almeno per chi se lo poteva permettere) e slittamento dei confini della morale. La coda dei Roaring Twenties, sul punto di spegnersi nel peggiore dei modi.

Come ogni buon noir che si rispetti, la sceneggiatura di “Babylon Berlin” trova in tale contesto di confusione e promiscuità un terreno fertile dove far attecchire i propri semi. Lo script propone infatti una calibrata mescolanza di generi, abile a volgere le mille sfaccettature della Storia a proprio vantaggio. Noir, appunto, o neo-noir che dir si voglia, ma anche hard boiled (l’abbrivio pare uscire dritto da un romanzo di Chandler), dramma storico, spy story e – in ultima analisi – tragedia. Il tutto shakerato a ritmo di Charleston.

Se l’atmosfera rappresenta l’anima pulsante di “Babylon Berlin”, è nella messa in scena che la forza produttiva di cui sopra mostra i suoi muscoli. Sontuose scenografie art déco e quartieri popolari ritratti nella loro brutale decadenza, una fotografia impeccabile e altrettanta cura nel reparto costumi. Per esporre l’antitesi tra sfarzo e degrado della capitale tedesca, nessun dettaglio è lasciato al caso: un’attenzione estetica certosina che attraversa ogni singolo aspetto della mise-en-scène. E nemmeno si tratta di mera cosmesi, perché all’opulenza scenografica corrisponde un’eguale diligenza nell’architettura narrativa. L’intrico di trame è complesso e stratificato, concede il giusto spazio a tutti i personaggi, appassiona lo spettatore e al medesimo tempo lo tratta come un essere senziente, in grado di riempire i non detti senza bisogno di pleonasmi o imbeccate.

A completare il quadro, last but not least, ci sono gli attori. Un cast corale composto da volti e corpi segnati dalla vita, che per mezzo di ogni ruga, ogni cicatrice, comunicano senza bisogno di parole. Facce da Cinema, per usare un’espressione fuori moda. Volker Bruch, Liv Lisa Fries, Peter Kurth e altri nomi che ai più diranno poco o niente, ma che contribuiscono in maniera significativa a infondere spirito e calore in un palcoscenico dal fondale pressoché già perfetto.

A proposito di “Babylon Berlin”, non è quindi fuori luogo parlare di personalità. Pur attingendo a un vasto campionario di fonti d’ispirazione (di cui peraltro non viene fatto mistero), la serie possiede un carisma tutto proprio, simile a pochi e uguale a nessuno. Ed è proprio a fronte dell’investimento iniziale che l’audacia degli autori assume contorni quasi rivoluzionari, perché tutto hanno fatto meno che giocare sul sicuro.

Coraggio, padronanza dello storytelling, virtuosismo tecnico e rispetto per il pubblico: qualità che non s’incontrano tutti i giorni, sul piccolo come sul grande schermo. Tom Tykwer (stratega dell’intera operazione, a cui si devono, tra gli altri, “Lola corre” e “Profumo”) ha indicato una strada, una direzione. Un “Si può fare!” urlato a pieni polmoni degno di Gene Wilder, appello e dichiarazione d’intenti che – in quanto, di nuovo, europei – non deve lasciarci indifferenti.

Le prime due stagioni di “Babylon Berlin” verranno trasmesse su RSI LA1 a partire da lunedì 4 luglio (due episodi a settimana, ore 23:00 circa). Ogni puntata rimarrà disponibile sul Play RSI per i successivi 30 giorni.






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