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Quando i giovani insegnano che i confini non ci sono ed i muri non servono
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Quando i giovani insegnano che i confini non ci sono ed i muri non servono
Nato nel 1891, ancora sotto l’impero austro-ungarico, figlio di pescatori, studente universitario a Vienna, Marin ha fatto del suo gradese una lingua poetica “universale” parlando, quasi ossessivamente, degli elementi naturali costitutivi della realtà lagunare: la sabbia, il vento, le onde, i gabbiani. Si è spesso parlato per la sua poesia di “panteismo”, considerando la sua produzione come caratterizzata dall’idea che vi sia un aspetto trascendente, divino, in ogni minimo elemento naturale.
Negli ultimi anni della sua vita, fra il 1979 e il 1985, ho avuto la fortuna di andarlo spesso a trovare nella sua bella casa in riva al mare per ragioni di studio che sono diventate di affetto profondo.
Fra i tanti racconti che mi ha fatto, seduto in poltrona, ormai cieco, in un salotto inondato di luce, ricorderò sempre quello del suo incontro, tanti anni prima, proprio sulla spiaggia di Grado, con una bambina che lo guardava con curiosità fotografare le nuvole con un apparecchio rudimentale.
Alla bambina divertita, il poeta domandò: “Dimmi, secondo te, dove cominci, e dove finisci?”. La bimba rispose pronta: “Comincio qui”, indicando la testa, “e finisco qui”, indicando i piedi. “E se ti tolgo la sabbia da sotto i piedi? L’aria che ti scompiglia i capelli e ti fa respirare? La forza di gravità che ti tiene attaccata al suolo? Le nuvole sempre diverse che scorrono in cielo? Se ti tolgo tutto questo, esisteresti?”
Insieme a quella bambina anch’io, quel giorno, mi sono trovato a misurarmi con una dimensione cui non avevo mai pensato, su cui non avevo riflettuto abbastanza. La finitezza della vita mi era concetto brutalmente chiaro, ma non quello di una sua “infinità naturale”, non religiosa, ma consistente nell’implicare quel che la precede, quello che ne segue, così come tutto quanto la “circonda”.
Dal poeta dell’isola, dai versi così legati ad un dialetto insulare che sa farsi strumento di lettura del mondo intero, ho imparato, credo, che ognuno di noi è fatto anche, se non soprattutto, di quel che gli sta attorno, con cui confrontarsi, nel tempo, ogni giorno, naturalmente, necessariamente.
Il racconto di Marin mi è tornato in mente in questi giorni, pensando ad un possibile rapporto fra una certa serie di decisioni della politica e le manifestazioni ambientaliste che hanno avuto recentemente un momento di grande richiamo con gli eventi di “Youth4Climate” a Milano.
Una ragazzina “impertinente” è tornata a provocare la politica ed i politici: Greta Thunberg, insieme a centinaia di giovani e giovanissimi, mette nuovamente in causa l’immobilismo dei governi mondiali in tema di riscaldamento climatico sintetizzandolo con un ormai virale “bla, bla, bla”.
I giovani militanti per il clima vogliono fatti, non parole, ed i fatti, a livello globale come nei singoli paesi, soprattutto quelli industrializzati, stentano a manifestarsi, ad andare oltre qualche sterile proclama di buone intenzioni, magari per il 2030, il 2040, il 2050, c’è tempo, diamine.
E invece no, il tempo non c’è, dicono i giovani, quelli che si vorrebbe continuare a definire (opportunisticamente) disinteressati ad ogni questione politica o sociale, chiusi nell’autismo social dei telefonini e dei selfie, mentre li si scopre, dannazione!, capaci di essere “militanti” per una causa che appare cruciale per il futuro del pianeta, mettendo in crisi una prassi politica che sulle urgenze derivanti da prospettive a medio termine non è capace né ha l’abitudine di misurarsi.
E via dunque con le etichette: quei giovani sono ingenui, illusi, presuntuosi, non capiscono su quali priorità la politica deve chinarsi oggi, senza considerare (o facendo finta di non vedere) che “chi oggi protesta per il clima tocca un tema concreto e pregno di conseguenze. Tanto quanto lo è, per esempio, quello del lavoro, cioè un tema su cui si protesta da secoli, e che nessuno si sogna di tacciare di idealismo o di ingenua astrattezza.
La giustizia intergenerazionale, peraltro, non riguarda solamente il cambiamento climatico, ma tutte le decisioni politiche ed economiche con effetti a lungo termine. Che conseguenze hanno le attuali politiche demografiche? A cosa porteranno, tra qualche decennio, le decisioni prese oggi sul fare debito, (…) sulla viabilità o gli investimenti fatti sulla sanità? Sono domande che troppo spesso noi elettori non ci poniamo, e che di conseguenza non diventano i temi attorno a cui si fanno le campagne elettorali e, poi, i governi.” (da Linkiesta)
Eh già, una parte considerevole di politici e di politiche proprio non ce la fanno ad andare oltre, a concepire le questioni, tutte le questioni, anche locali, che devono quotidianamente affrontare, come frutti di un “contesto”, che è storico politico e geografico, e che va ben oltre i ristretti confini regionali o nazionali.
Un certo fronte politico, anzi, pare volersi addirittura rifugiare nel proprio “guscio elettorale” perché è l’unico modo che conosce di muoversi (stando fermi), solleticando scontento e frustrazione ed evocando, ad ogni piè sospinto, il fantasma del “borsello vuoto per colpa dello stato e delle sue decisioni”. E così, per simili “politici” i giovani seguaci di Greta Thunberg e sostenitori di un diverso approccio alla questione ambientale, diventano “gretini” e “ecoisterici” (come ci somministra settimanalmente un domenicale che continua a farsi, fra l’altro, paladino del ritorno al nucleare).
Il fatto è che temi come l’ambiente (e se vogliamo anche quello della pandemia) sono lì anche a dirci che possiamo considerare le peculiarità regionali e nazionali finché vogliamo, ma resta sempre il fatto che si tratta di questioni che passano ogni confine e contro cui non si erge alcun riparo, ma che vanno piuttosto accolte come necessità di mettere in campo una disponibilità all’apertura e allo scambio: di esperienze, di progetti, di visioni, per condividerle, a mutuo beneficio.
I giovani l’hanno capito, e forse per questo non si identificano più (o sempre meno) con referenti partitici che di quelle preoccupazioni fanno tutt’al più uso strumentale per la prossima campagna elettorale, per poi continuare imperterriti a ritenere prioritarie ben altre questioni, perseguendo un’idea di benessere che continua a fondarsi su principi come il consumo ed il mercato, o ancora la salvaguardia dei benefici derivati alla comunità dall’accresciuta ricchezza di pochi e provvidenziali contributori, da trattare con i guanti.
Anche al recente Forum Lugano 2030, dove si è parlato di un modello di città e di regione del futuro, fra innovazione e sostenibilità, con al centro l’impulso che può venire dagli istituti bancari e universitari, abbiamo appreso dal fiscalista Marco Bernasconi che la questione centrale, in fondo, è però sempre quella: non c’è futuro economico senza la dovuta e doverosa attenzione per le imposte che si infliggono ai ricchi. (Ticinonews, 3.10.21)
Ma non sarà che così, di questo passo, si acuirà il fossato fra politica partitica e mondo giovanile, fra chi si prepara a mettersi in lista con qualche slogan da quadriennio (in cui si associa, magari, l’UE alla mafia, per dire) o che già ora, si candida a cariche onorifiche (che gara fra Quadri e Badaracco per il vice-sindacato di Lugano!) ed un arcipelago di interessi, sogni, preoccupazioni che si incanalano, per esempio, nella militanza ambientalista planetaria?
“Se, anche grazie alle proteste per la crisi climatica, riuscissimo finalmente a guardare al futuro e non solo al presente, e a usare una prospettiva di lungo corso nel prendere decisioni, il problema della giustizia intergenerazionale sarebbe risolto. E a ben vedere potremmo sperare di risolvere anche quello del populismo, visto che pretenderemmo da candidati e dirigenti progetti credibili e pianificazioni realistiche, rispedendo al mittente bufale, soluzioni semplicistiche e vane promesse da arringapopoli.” (da Linkiesta, cit.)
Già perché anche il nostro microcosmo, quello che il Forum Lugano 2030 ha profilato, fra l’altro, come “un’isola abitabile fra Zurigo e la Lombardia” (v. “La Domenica del Corriere”, 3.10.21) se proprio non riuscisse a fare a meno di concepirsi come un’isola, potrebbe perlomeno provare, come tale, a farsi punto di partenza o di approdo, aperto, propositivo, capace di misurarsi con il maestrale lagunare (che può portare a riva ogni tipo di imprevisto) ma anche con gli infiniti spazi che permettono di raggiungere nuovi e sorprendenti lidi.
Un’isola che si concepisca in relazione con ciò che la circonda e non contro.
Basta voler partire, confidando nel buon vento e non nascondendo la testa nella sabbia.
Nell’immagine: l’isola di Barbana, vicino a Grado
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