(Br)exit Superlega
Sembra fallita sul nascere l’ipotesi di un nuovo campionato ma la crisi finanziaria del settore resta
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Sembra fallita sul nascere l’ipotesi di un nuovo campionato ma la crisi finanziaria del settore resta
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• – Mario Conforti
Sembra fallita sul nascere l’ipotesi di un nuovo campionato ma la crisi finanziaria del settore resta
La Superlega si affloscia subito, come un pallone bucato e senza nemmeno aver provato a giocare, sotto la pressione della piazza e, a cascata, di quella della politica. Proviamo a fare un po’ di storia e di contesto, con qualche tentativo di spiegazione.
Era il 2010 e i capi di alcuni dei colossi dell’automobile, BMW, DaimlerChrysler, Fiat, Ford e Renault (Honda e Toyota arrivarono più tardi) stavano seduti in una sala conferenze tutta legni pregiati e acciai spazzolati. Non era certo un’amena e fraterna agape, ma la formalizzazione di un progetto (GPWC, poi FOTA) che aveva l’obiettivo di dare vita a un campionato alternativo alla Formula 1. Saltando un paio di passi (e alcune coltellate nella schiena tra questi amici), basti dire che il progetto era ambizioso e complicato da realizzare, ma che i promotori presero – almeno a parole, ma con il peso economico dei loro gruppi industriali – abbastanza sul serio da mettere molta paura alla FIA (la federazione) e al commercial rights holder (all’epoca, la FOA di Ecclestone) e convincerli a firmare un nuovo Concorde Agreement che dava molti più soldi ai team. Tutto bene e tutti contenti, fino alla prossima.
Questi eventi ormai antichi possono servire per un tentativo di lettura di quanto si è tentato di fare nel calcio con la Superlega, e di quello che avviene in altri sport (basket ad esempio); ma non del tutto. Da una parte il tentativo dei promotori era forse, anche sulla scorta del precedente di cui sopra, di mettere UEFA e FIFA con le spalle al muro e ottenere una più grande parte della torta; dall’altra parte, il fatto che le proprietà delle squadre promotrici della Superlega sono per lo più in mano a gruppi americani, russi o cinesi, del tutto estranei peraltro al contesto nazionale e alla mentalità in cui le loro squadre operano, ciò che spiega tante cose e soprattutto gli ultimi sviluppi: questi gruppi hanno dello sport una concezione assai diversa da quella europea e già ben conoscono il sistema delle leghe sportive “chiuse”.
Le ultime notizie danno il progetto per moribondo, con inglesi e spagnoli a sfilarsi per primi dopo il casino suscitato, e con pochissimi (su tutti Juve e Real) rimasti con il cerino in mano, o buoni ultimi a prendere atto della clamorosa déconfiture. Insomma, tira aria da “indietro tutta”, un colpo di scena inatteso, soprattutto per il fatto che si riteneva che i protagonisti della vicenda ci avessero pensato su bene prima, e valutato tutte le possibili conseguenze (sociali, giuridiche, politiche), prima di esporsi; un bell’esempio di dilettantismo da parte di cotanti strateghi e imprenditori sportivi, non c’è che dire.
Non bisogna però spiegare a nessuno che lo sport del calcio è diventato un business globale, con squadre quotate in borsa e divenute aziende a tutti gli effetti. I tifosi, anche quelli che stanno in queste ore elevando alti e commossi lai per la perdita di qualcosa che è morto e sepolto da anni (la purezza dello sport, l’attaccamento alla maglia, la competizione etica, e via sognando), sono i primi che però reclamano risultati, emozioni, investimenti in giocatori e in infrastrutture (stadi), gloria a gogo; aspettative che, unite alla grande concorrenza globale e a una tremenda improvvisazione imprenditoriale (di cui la Superlega è l’ultimo e plateale esempio), hanno precipitato le grandi squadre europee in un vertiginoso vortice di debiti. Ad eccezione delle squadre inglesi, per le quali gioca, come detto, un ruolo soprattutto una visione “americana” della fruizione sportiva, le altre partecipanti a questo progetto sono tutte indebitate per centinaia di milioni di euro ciascuna, tecnicamente fallite ma salvate con espedienti contabili (plusvalenze farlocche sui trasferimenti di giocatori, tra gli altri) che gli organismi di controllo, cioè le federazioni, non osano indagare per non rompere il giocattolo che a loro rende parecchio. Significativo notare che gli ultimi rimasti sulla tolda della nave che affonda sono i club più indebitati, mente quelli ricchi (gli inglesi, appunto) hanno fatto in fretta ad andarsene dopo la prima difficoltà; per i primi, la Superlega era un’ancora di salvezza, per i secondi una bella opportunità di business.
Quindi, probabilmente tutto sembra risolversi con un comico nulla di fatto, senza nemmeno la necessità di concessioni economiche da parte delle federazioni. Il fallimento, se fallimento sarà, è soprattutto da ricondurre al fatto che il progetto di una superlega calcistica è molto più complicato da mettere in piedi rispetto alla Formula Uno (o al basket), ma soprattutto perché questo sport ha acquisito un’enorme valenza sociale ed emozionale, ha un forte radicamento locale a livello della tifoseria, difficilmente replicabile ed esportabile in un campionato “di plastica” come quello che si prospetta(va), e perché una simile ipotesi ha effetti di natura politica non irrilevanti (è il motivo per il quale i leader europei si sono affrettati a esprimere sdegno elettorale, con qualche sfoggio di stucchevole retorica). E poi il calcio è sport “europeo” e nazionale, e non potrà che difficilmente metabolizzare un cambiamento di paradigma che lo metta insieme a spot assurdi come il baseball o il football americano, in cui l’evento sportivo è diventato un inessenziale epifenomeno di un evento commerciale che si svolge in quei grandi supermercati del consumo idiota che sono gli stadi americani.
Quando (e se) questo pericolo sarà scampato, occorrerà però pur fare qualche riflessione sull’oscena girandola di milioni che ruota attorno all’attività pedatoria, con stipendi allucinanti (non solo quelli dei calciatori) e commissioni assurde ai mediatori, con strutture ipertrofiche; con sullo sfondo le attese e le pretese illimitate dei tifosi, che vogliono il sogno a tutti i costi (altrui), anche a prezzo di far male a se stessi e ai propri eroi della domenica. Insomma, se si sgonfia la fronda dei grandi club, i problemi del pianeta calcio restano intatti e richiedono una cura.
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