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C’è silenzio e silenzio, e c’è chi comincia a chiedersi perché parlarne
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Enrico Lombardi
Enrico Lombardi
C’è silenzio e silenzio, e c’è chi comincia...
• 24 Novembre 2022 – Enrico Lombardi
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Tanto rumore per nulla, verrebbe da dire. Oppure, e forse meglio, tanto silenzio per cause diverse, seppur accomunabili nel capitolo delle ingiustizie e tragedie dei nostri tempi, che il mondo mediatico ci schiaffa in faccia brutalmente a proposito di questo Mondiale, mentre via social ormai monta già l’insofferenza di chi vorrebbe che la si smettesse di discutere (o di stare visibilmente zitti) e si godesse dello “spettacolo” offerto da partite che da scontate diventano “leggendarie”, come quella fra Argentina ed Arabia Saudita, o “clamorose”, come quella fra Germania e Giappone.

Certo, detto e ribadito che siamo in un contesto in cui domina l’ipocrisia, forse risulta ad un certo punto stucchevole ed inutile continuare a battere sempre lo stesso chiodo. È così e basta. E poi, diamine, è arrivato anche il giorno dei nostri eroi e dunque torniamo ad una sana espressione della nostra passione (anche un po’ nazionalistica, perché no). Ma qualche domanda la si potrebbe pur continuare a porre: ad esempio, se sia davvero la cosa migliore arrendersi all’evidenza, prendere atto della situazione (di profonda ingiustizia) che aleggia implacabile su questo dorato mondiale, o se non sia comunque necessario continuare a ribadire, in primis alla FIFA, che il calcio è uno sport bellissimo ma a trattarlo così si tocca letteralmente il fondo; che così non si può andare avanti, neanche nello sport, neanche in quello più amato e seguito al mondo.

In realtà, ci troviamo in questi giorni di fronte ad un evento che riassume e sublima i principi su cui si fonda l’industria del calcio così come essa si manifesta nei più diversi campionati, dove impera il mercato (di giocatori vezzeggiati e superpagati così come di poveri cristi che per due soldi sputano sangue nelle periferie del globo calcistico), dove le squadre (dai budget e dai debiti roboanti) sono quotate in borsa e si sorreggono finanziariamente grazie a stravaganti fondi di investimento di società misteriose, russe, americane, arabe, qatariote.

Come una perfetta macchina capitalistica neoliberista, il calcio globalizzato deve produrre utili, in parte intascati da dirigenti e funzionari voraci oltre misura, in parte da reinvestire per produrre nuove opportunità di introiti a guadagni (sul merchandising, sui diritti televisivi, sugli indotti) in una spirale che si vuole inesauribile ma che tale non è, non può essere. Perché certo, è vero, toccato il fondo, si può anche cominciare a scavare, ma prima o poi si passa il limite. E qui e oggi ci siamo vicini, forse come non mai.

In questo grande carrozzone agonistico, finanziario e mediatico, tutto prende una dimensione che rischia ampiamente di sfuggire di mano. Ogni gesto, ogni parola, amplificati a dismisura, ci lasciano tutti in balìa di una stordente cacofonìa, nella difficoltà di ritenere ed analizzare episodi ed eventi dalle diverse sfaccettature ed implicazioni. È tutto spettacolo, è tutto business.

Eppure, fra quelle domande che ci si potrebbe continuare a porre, vi potrebbe anche essere quella di chiedersi che differenza ci sia fra il silenzio della squadra iraniana all’echeggiare del proprio inno nazionale nello stadio, e quello dei giocatori della Germania, con tanto di mano davanti alla bocca, prima della partita persa contro il Giappone.

Da una parte, un gruppo di calciatori sconosciuti e “fuori mercato”, che nell’occasione (sportiva) della loro vita decidono di appellarsi al diritto alla vita e alla giustizia calpestati tragicamente nel loro paese. Fra una settimana o poco più torneranno a casa e che ne sapremo mai di cosa capiterà loro? Dall’altra parte una squadra di stelle strapagate, con un ampio seguito (social) di supporters e followers, dalla variabile sensibilità verso il proprio ruolo di testimonial di cause più o meno umanitarie. Eccoli pronti i tedeschi, dunque, a ribellarsi alla sanzione con cartellino giallo della FIFA se avessero esibito la fascia arcobaleno al braccio del capitano.

I calciatori tedeschi, in accordo con la loro Federazione, hanno aperto una breccia nel muro dei divieti a manifestare e manifestarsi, mettendosi in posa, per le foto di rito, con una mano sulla bocca. Forse la loro iniziativa avrà un seguito, forse altre squadre (magari anche la nostra) li imiteranno.

Ma cosa accadrà loro quando fra una due o tre settimane torneranno a casa? Nulla, questo è certo. Anzi, a seconda dell’audience delle loro prestazioni (sportive ed extra-sportive) potrebbero guadagnare ulteriori adepti fra il popolo dei tifosi da stadio e da tastiera, aumentando il proprio “valore di mercato”.

E la loro Federazione potrà nel contempo ribadire tutti i suoi sacrosanti princìpi, che l’hanno addirittura portata ad annunciare un’azione legale nei confronti della FIFA per il divieto (con sanzione) di indossare la fascia arcobaleno. Ma cosa ha spinto la Federcalcio tedesca ad andare fino alla causa legale? Uno degli sponsor della Mannschaft, la catena di supermercati Rewe, ha criticato apertamente la passività della Federazione nel cedere all’imposizione della FIFA, minacciando di negare il proprio sostegno finanziario alla nazionale tedesca se non manifesta come si deve. Sì, perché ne va dell’immagine e della reputazione… della Rewe. Ecco perché la Federcalcio tedesca ha fatto causa alla FIFA. Eh già, anche la solidarietà è diventata un affare, in questo sport in cui non deve entrare la politica ma in cui troneggia inscalfibile la legge del denaro.

Nell’immagine: i calciatori tedeschi con la bocca tappata






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