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Redazione
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• 21 Febbraio 2023 – Redazione

Nel periodo elettorale i contributi di candidate e candidati sono benvenuti sulla nostra zattera secondo queste regole

Di Jürgen Habermas, da La Repubblica del 19 febbraio

La decisione di fornire carri armati Leopard era stata appena salutata come ‘storica’ che già la notizia veniva superata – e relativizzata – da tonanti richieste di aerei da combattimento, missili a lungo raggio, navi da guerra e sottomarini. Le invocazioni d’aiuto, drammatiche quanto comprensibili, da parte dell’Ucraina invasa in violazione del diritto internazionale hanno trovato in Occidente l’eco prevedibile. Nuova è stata solo l’accelerazione del noto gioco delle richieste di armi più potenti sulla spinta dell’indignazione morale, e il successivo upgrading delle suddette tipologie di armi regolarmente attuato, seppure con esitazione.

Anche in ambienti SPD [Partito socialdemocratico tedesco, ndr] si è sentito dire che non esistono ‘linee rosse’. Ad eccezione del cancelliere e del suo entourage, il governo, i partiti, e la stampa quasi compatti prendono sul serio le parole incisive del ministro degli esteri lituano: “Dobbiamo superare la paura di voler sconfiggere la Russia”. Dalla vaga prospettiva di una ‘vittoria’, che può voler dire qualsiasi cosa, qualsiasi ulteriore discussione circa l’obiettivo della nostra assistenza militare – e le sue modalità – deve cessare. Così il processo di armamento pare assumere una dinamica propria, certo sotto la spinta della fin troppo comprensibile insistenza del governo ucraino, ma alimentata qui da noi dal tono bellicoso di una ‘opinione pubblica’ compatta, in cui l’esitazione e la riflessione di metà della popolazione tedesca non trovano espressione. O forse non del tutto? Attualmente stanno emergendo voci riflessive che non solo difendono la posizione del cancelliere, ma sollecitano anche una riflessione pubblica sulla difficile strada del negoziato. Se io mi unisco a queste voci è proprio perché è giusto affermare che l’Ucraina non può perdere la guerra. Il punto per me è il carattere preventivo di negoziati in tempo utile per impedire che una guerra lunga mieta ancora più vittime e distruzioni e ci ponga alla fine di fronte a una scelta obbligata: o entrare attivamente in guerra oppure, per non scatenare la prima guerra mondiale fra potenze dotate di armi nucleari, lasciare l’Ucraina al suo destino.

La guerra prosegue, il numero delle vittime e l’entità delle distruzioni lievitano. La dinamica del sostegno militare da noi fornito per valide ragioni deve quindi spogliarsi del carattere difensivo perché l’obiettivo può essere solo la vittoria su Putin? La Washington ufficiale e i governi degli altri paesi Nato sono stati d’accordo fin dall’inizio di fermare prima il ‘point of no return’ – l’entrata in guerra.

La titubanza di carattere palesemente strategico e non solo tecnico che il cancelliere Scholz ha riscontrato da parte del presidente americano già agli albori della fornitura di carri armati ha ribadito la premessa che sta alla base dell’appoggio occidentale all’Ucraina. Finora a preoccupare l’Occidente era il problema che sta solo alla leadership russa decidere da quale punto in poi considerare l’entità e alla qualità delle forniture occidentali di armi alla stregua di un’entrata in guerra.

Ma da quando anche la Cina si è dichiarata contraria all’impiego di armi nucleari, biologiche e chimiche (ABC) questa preoccupazione è passata in secondo piano. Quindi i governi occidentali farebbero bene piuttosto a concentrarsi sul problema di questo rinvio. Nella prospettiva di una vittoria a tutti i costi, l’incremento qualitativo delle nostre forniture di armi ha preso un abbrivio che potrebbe portarci più o meno senza accorgercene oltre la soglia di una terza guerra mondiale. Quindi ora non si dovrebbe “soffocare qualsiasi dibattito circa la fine del possibile passaggio dalla presa di posizione alla partecipazione effettiva, in base alla prospettiva che già solo conducendo un simile dibattito si fanno gli affari con la Russia” (come ha scritto Kurt Kister nell’inserto culturale della ‘Süddeutsche Zeitung’ dell’11-12 febbraio 2023).

Diventa reale il rischio di aggirarsi come sonnambuli sull’orlo dell’abisso, perché l’alleanza occidentale non solo sostiene l’Ucraina, ma ribadisce instancabilmente che sosterrà il governo ucraino “per tutto il tempo necessario” e che la decisione circa tempi e obiettivi di possibili negoziati spetta esclusivamente al governo ucraino. Questa affermazione ha lo scopo di scoraggiare l’avversario, ma è incoerente e maschera differenze palesi. In primo luogo può ingannarci sulla necessità di avviare da parte nostra iniziative negoziali.

Da una parte è ovvio che solo una parte coinvolta nel conflitto possa determinare il proprio obiettivo bellico e, in caso, i tempi dei negoziati. Però la capacità di resistenza ucraina dipende anche dal sostegno occidentale.

L’Occidente ha i propri legittimi interessi e obblighi. Quindi i governi occidentali agiscono in un contesto geo-politico più ampio, e devono tenere in considerazione altri interessi oltre a quelli ucraini in questa guerra: hanno obblighi giuridici nei confronti delle esigenze di sicurezza dei propri cittadini e inoltre, indipendentemente da quelle che sono le posizioni della popolazione ucraina, hanno una responsabilità morale per le vittime e le distruzioni provocate con le armi fornite dall’Occidente; quindi non possono scaricare sul governo ucraino la responsabilità delle brutali conseguenze del prolungamento delle ostilità, possibile solo grazie al sostegno militare offerto.

Il fatto che l’Occidente debba prendere decisioni importanti e assumersene la responsabilità è dimostrato anche dalla situazione che più deve temere, ossia quella citata in cui una superiorità delle forze armate russe lo porrebbe di fronte all’alternativa di cedere e di entrare in guerra. Il tempo stringer per i negoziati anche per motivi più ovvi, come l’esaurimento del personale e delle risorse necessarie alla guerra. Il fattore tempo gioca inoltre un ruolo rispetto alle convinzioni e inclinazioni di ampia parte delle popolazioni occidentali. In questo contesto è troppo facile ridurre le posizioni sulla controversa questione della tempistica dei negoziati al semplice contrasto tra morale e interesse personale. Sono soprattutto morali le ragioni che spingono a porre fine alla guerra.

Quindi la durata del conflitto influisce sui punti di vista delle popolazioni circa gli eventi bellici. Più la guerra si prolunga più è prevalente la percezione della violenza, particolarmente esplosiva nei conflitti moderni, determinando la visione del rapporto tra guerra e pace in generale. Questi punti di vista mi interessano in relazione al dibattito che si sta progressivamente avviando nella Repubblica federale sulla razionalità e la possibilità di negoziati di pace. Qui da noi, già all’inizio del conflitto in Ucraina, due modi diversi di percepire e valutare la guerra hanno trovato espressione nella disputa tra due vaghe ma discordanti valutazioni linguistiche; l’obiettivo delle nostre forniture di armi è che l’Ucraina “non perda la guerra” o piuttosto la “vittoria sulla Russia”?

Questa differenza concettualmente ambigua ha ben poco a che fare con una presa di posizione pro o contro il pacifismo. Il movimento pacifista nato alla fine del diciannovesimo secolo ha politicizzato la dimensione violenta delle guerre, ma il vero punto non è il graduale superamento delle guerre come mezzo di risoluzione dei conflitti internazionali, bensì il rifiuto totale di imbracciare armi. Pertanto il pacifismo non gioca alcun ruolo in questi due punti di vista, che si differenziano in base al peso attribuito alle vittime della guerra.

È importante perché la sottile differenza retorica tra le espressioni ‘non perdere’ e ‘vincere’ la guerra non divide i pacifisti dai non pacifisti. Oggi caratterizza infatti anche i contrasti in seno a quella fazione politica che considera l’alleanza occidentale non solo legittimata, ma anche politicamente obbligata a sostenere l’Ucraina con forniture di armi, appoggio logistico e servizi civili nella sua coraggiosa lotta contro l’attacco all’esistenza e all’indipendenza di uno Stato sovrano, condotto in violazione del diritto internazionale e in maniera decisamente criminale.

Questa presa di posizione è legata alla solidarietà per il triste destino di un popolo che dopo molti secoli di denominazione straniera polacca, russa e anche austriaca ha conquistato l’indipendenza solo con il crollo dell’Unione Sovietica. Tra le nazioni europee tardive l’Ucraina è l’ultima arrivata. Continua ad essere una nazione in fieri.

Ma anche nel vasto campo dei sostenitori dichiarati dell’Ucraina, al momento gli animi sono divisi riguardo alla giusta tempistica dei negoziati di pace. Una parte si identifica con la richiesta del governo ucraino di un sostegno militare in costante incremento per sconfiggere la Russia e ripristinare l’integrità territoriale del Paese, Crimea inclusa. L’altra parte intende spingere per tentare di arrivare a un cessate il fuoco e a negoziati che almeno scongiurino una possibile sconfitta, ripristinando lo ‘status quo ante’ il 23 febbraio 2022. In questo pro e contro si riflettono esperienze storiche.

Non è un caso che questo conflitto che si consuma lentamente imponga ora di fare chiarezza. Da mesi il fronte è congelato. Un articolo della ‘Frankfurter Allgemeine Zeitung’ dal titolo “La guerra di logoramento favorisce la Russia” racconta la guerra di posizione con ingenti perdite da entrambe la parti attorno a Bakhmut, nel nord del Donbass, e cita la dichiarazione sconvolgente di un alto funzionario della Nato: “Laggiù sembra Verdun”. I paragoni con quella spaventosa battaglia, la più lunga e sanguinosa della Prima guerra mondiale, hanno solo lontanamente a che fare con la guerra in Ucraina, e solo nella misura in cui una prolungata guerra di posizione senza grandi variazioni sulla linea del fronte fa emergere innanzitutto la sofferenza delle vittime rispetto all’obiettivo politico ‘significativo’ della guerra. La scioccante cronaca dal fronte di Sonja Zekri, che non nasconde le proprie simpatie ma non abbellisce nulla, ricorda in effetti le scene del fronte occidentale del 1916. Soldati che ‘si scannano’, cumuli di morti e feriti, le macerie di case, ospedali e scuole, ossia l’annientamento della civiltà; in questo si riflette l’essenza distruttiva della guerra, che pone in una luce diversa le parole della nostra ministra degli Esteri [Annalena Baerbock, ndr], secondo cui noi “con le nostre armi salviamo vite”.

Nella misura in cui le vittime e le distruzioni della guerra si palesano come tali, viene alla ribalta l’altra faccia della guerra – non solo mezzo di difesa contro un aggressore senza scrupoli; nel loro corso gli eventi bellici sono percepiti come violenza travolgente che deve cessare al più presto. E quanto più si sposta il peso da un aspetto all’altro, tanto più chiara si impone l’idea che la guerra non debba esistere. Nelle guerre, alla volontà di sconfiggere il nemico si è sempre associato il desiderio che la morte e le distruzioni abbiano fine. E nella misura in cui assieme alla potenza delle armi sono aumentate anche le devastazioni, anche il peso di questi due aspetti è cambiato.

A seguito delle esperienze barbare delle due guerre mondiali e della tensione nervosa provocata dalla Guerra fredda nel secolo scorso, nella mente delle popolazioni coinvolte ha avuto luogo un latente spostamento concettuale. Dalle loro esperienze esse avevano tratto spesso a livello inconsapevole la conclusione che le guerre – modalità fino ad allora scontata di condurre e risolvere i conflitti internazionali – sono del tutto incompatibili con le regole del vivere civile.

Il carattere violento della guerra aveva in un certo senso perduto l’aura di neutralità. Questo ampio cambiamento compiutosi nella coscienza ha lasciato traccia anche nell’evoluzione del diritto. Il diritto umanitario che punisce i crimini di guerra ha tentato senza molto successo di frenare l’esercizio della violenza in guerra. Ma al termine della Seconda guerra mondiale la violenza della guerra stessa ha dovuto essere pacificata con mezzi giuridici e sostituita dal diritto come unica modalità di risoluzione dei conflitti tra Stati. La carta delle Nazioni Unite, entrata in vigore il 24 ottobre 1945, e l’istituzione del Tribunale internazionale dell’Aja hanno rivoluzionato il diritto internazionale. L’articolo 2 obbliga tutti gli Stati a risolvere con mezzi pacifici le dispute internazionali. Fu lo shock delle violenze della guerra a generare questa rivoluzione.

Nelle parole toccanti del preambolo si riflette l’orrore di fronte alle vittime della Seconda guerra mondiale. Centrale è l’appello a “unire le nostre forze e ad assicurare mediante… l’istituzione di sistemi, che la forza delle armi non sarà usata salvo che nell’interesse comune” – ossia nell’interesse dei cittadini di tutti gli Stati e di tutte le società del mondo definito in base al diritto internazionale. Questa attenzione alle vittime della guerra spiega da un lato l’abolizione dello ‘ius ad bellum’, ossia il nefasto ‘diritto’ degli Stati sovrani di guerreggiare a piacimento; ma anche il fatto che la dottrina su base etica della guerra giusta non sia stata rinnovata, bensì abolita, a parte il diritto di difesa dell’aggredito. Le varie misure elencate nel Capitolo VII contro le aggressioni sono dirette contro la guerra in quanto tale, e questo esclusivamente nel linguaggio del diritto. Perché a tal fine è sufficiente il contenuto morale insito nel moderno diritto internazionale.

È alla luce di questa evoluzione che ho inteso la formula “l’Ucraina non può perdere la guerra”. Perché interpreto la fase di cautela come monito che anche l’Occidente, il quale consente all’Ucraina di proseguire la battaglia contro un aggressore criminale, non deve dimenticare né il numero delle vittime né il rischio a cui le possibili vittime sono esposte, né l’entità delle effettive e potenziali distruzioni che per la legittima finalità a malincuore devono essere messe in conto. Neppure il più altruistico sostenitore è esentato da questa ottica di proporzionalità.

La formula titubante “non può perdere” pone in discussione la visione Amico-Nemico che anche nel ventunesimo secolo considera ancora “naturale” e priva di alternative la soluzione bellica dei conflitti internazionali. La guerra, e a maggior ragione quella scatenata da Putin, è sintomo di una regressione a una fase precedente alla storica civile interazione tra potenze – soprattutto quelle che hanno potuto trarre insegnamento dalle due guerre mondiali. Quando lo scoppio di conflitti armati non può essere evitato da sanzioni dolorose anche per gli stessi paladini del diritto internazionale violato, l’alternativa offerta – rispetto a una prosecuzione della guerra con sempre più vittime – è la ricerca di compromessi tollerabili.

L’obiezione è ovvia: al momento non c’è segno che Putin intenda impegnarsi in negoziati. Non deve essere costretto a cedere con mezzi militari già solo per questo motivo? Inoltre Putin ha preso decisioni che rendono quasi impossibile dare avvio a negoziati promettenti. Perché con l’annessione delle provincie orientali ucraine ha creato realtà e cementato rivendicazioni inaccettabili per l’Ucraina.

D’altra parte la sua è stata forse una risposta, per quanto sconsiderata, all’errore compiuto dall’Alleanza Atlantica nel momento in cui ha intenzionalmente lasciato la Russia all’oscuro rispetto all’obiettivo del suo supporto militare. Perché così ha lasciato aperta la prospettiva di un ‘regime change’ inaccettabile per Putin. Al contrario, il fine dichiarato di ristabilire lo ‘status quo ante’ il 23 febbraio 2022 avrebbe agevolato la successiva via del negoziato. Ma entrambe le parti puntavano a scoraggiarsi a vicenda piantando paletti estesi e apparentemente inamovibili. Non sono presupposti promettenti, ma neppure disperati.

Perché a parte le vite umane che la guerra reclama giorno dopo giorno, aumentano i costi delle risorse materiali che non possono essere rimpiazzate a piacimento. E per l’amministrazione Biden il tempo stringe. Questo pensiero da solo dovrebbe spronarci a sollecitare energici tentativi di dare avvio ai negoziati e a cercare una soluzione di compromesso che non offra alla parte russa guadagni territoriali al di là dello ‘status quo’ precedente l’inizio della guerra, permettendole tuttavia di salvare la faccia.

A parte il fatto che i capi di governo occidentali come Scholz e Macron mantengono contatti telefonici con Putin, neppure il governo statunitense apparentemente diviso su questa questione può mantenere il ruolo formale di parte non coinvolta.

Un risultato negoziale durevole non può essere integrato nell’ambito di accordi di ampia portata in assenza degli Stati Uniti. Entrambe le parti in guerra hanno interesse a questo. Vale per le garanzie di sicurezza che l’Occidente deve fornire all’Ucraina, ma anche per il principio secondo cui il rovesciamento di un regime autoritario è credibile e stabile solo nella misura in cui scaturisce dalla popolazione stessa, ed è quindi sostenuto dall’interno.

La guerra ha in generale focalizzato l’attenzione su un’acuta necessità di regolamentazione nell’intera regione dell’Europa centrale e orientale, che vada oltre gli oggetti di contesa delle parti in conflitto. Hans-Henning Schröder, esperto di Europa orientale ed ex direttore dell’Istituto tedesco per gli affari internazionali e di sicurezza di Berlino ha indicato (sulla ‘Frankfurter Allgemeine Zeitung’ del 24 gennaio 2023) gli accordi di disarmo e le condizioni-quadro economiche in assenza delle quali non può essere raggiunto un accordo stabile tra le parti direttamente coinvolte. Putin potrebbe farsi vanto già della disponibilità degli Usa a impegnarsi in tali negoziati di portata geo-politica.

Proprio perché il conflitto tocca una rete di interessi più ampia, non si può escludere fin dall’inizio la possibilità di trovare, anche per le istanze al momento diametralmente opposte, un compromesso che salvi la faccia a entrambe le parti.

Traduzione di Emilia Benghi






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