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Nel paese con cui Lugano ha siglato un accordo sui bitcoin, alla radicata e diffusa criminalità organizzata l’autarca Nayib Bukele risponde con la creazione del più grande carcere delle Americhe (e forse del mondo)


Gianni Beretta
Gianni Beretta
Chi si salva in Salvador
• 10 Marzo 2023 – Gianni Beretta

Mentre la Città di Lugano ha celebrato il primo anniversario del varo della criptomoneta, con il sindaco Michele Foletti ad annunciare che dal prossimo aprile tasse e servizi comunali sulle rive del Ceresio potranno essere pagati in Tether, nel suo cripto-gemellato El Salvador si parla oggi assai poco del Bitcoin, la cui circolazione si è praticamente estinta nei principali centri commerciali della capitale che porta il nome in castigliano del San Salvatore. Non che il presidente Nayib Bukele si sia arreso nella promozione della valuta virtuale, di cui fu l’apripista planetario nel settembre 2021. Anzi, continua ad acquisirla dopo che il suo valore è precipitato dai 69 ai 17mila dollari di fine scorso anno (per timidamente risalire al momento oltre i 22mila). E questo mentre in varie parti del mondo si sono sommati (e continuano ad aggiungersi) i fallimenti delle piattaforme cripto con truffe miliardarie a centinaia di migliaia di piccoli e medi investitori in Bitcoin (come la recente Rock Trading italiana appoggiata a Banca Sella). 

Eppure per Bukele il vento corre in poppa nei sondaggi come per nessun altro capo di stato latinoamericano, con il 67% pronto a rieleggerlo. Ma grazie ai risultati positivi di un’altra problematica assai più prioritaria per i salvadoregni: la sicurezza interna. A un anno esatto infatti dalla proclamazione dello stato di eccezione (che proroga di mese in mese) l’appena quarantenne presidente può vantarsi di aver disarticolato le fatidiche maras (bande giovanili) che avevano convertito El Salvador in uno dei paesi più violenti della terra in tempo di pace, giungendo nel 2015 a superare i cento morti ammazzati l’anno ogni centomila abitanti.

Sono due le organizzazioni che imperversano (o, forse ormai, imperversavano) dagli anni ’90: la Mara Salvatrucha (MS 13) e la Barrio 18, entrambe nate a Los Angeles e trapiantate in El Salvador via via che i figli d’immigrati venivano deportati dopo aver scontato una pena in California. Si calcola che fossero 70mila i giovani che controllavano interi territori, in particolare nelle periferie delle città. Il loro sostentamento era assicurato dalle estorsioni a qualsiasi attività interna alle loro zone. Ma anche a chi ogni sera tornava a casa dopo aver lavorato fuori da quel quartiere. Come il mio storico taxista laggiù, che a ogni rientro giornaliero doveva versare fino a 15 dollari a una sorta di posto di blocco.

Chi sgarrava veniva ucciso; e le donne violate. Senza contare poi le frequenti rese dei conti fra le due bande stesse per la disputa di queste aree, ampie quanto marginali. In una disperante guerra fra poveri, visto che quelle residenziali dei benestanti sono rimaste sempre ben protette.

Ebbene, dopo aver negoziato con tali bande per i primi due anni presidenziali una sorta di non belligeranza, dal tragico ultimo weekend del marzo 2022 (in cui furono assassinate ben 87 persone) Bukele ha sospeso alcune garanzie costituzionali e mobilitato esercito e polizia. Da allora ben 64mila giovani sono stati arrestati (fra loro 1.200 minorenni) con procedimenti giudiziari approssimativi se non arbitrari. Il presidente twittero è arrivato poi a costruire a Tecoluca a tempo di record il più grande carcere delle Americhe (e forse del mondo) denominato Centro di Confinamento del Terrorismo, capace di ospitare fino a 40mila pandilleros, con 19 torri di vigilanza e una recinzione elettrica a 15mila volts.

Erano impressionanti le immagini che circolavano a fine febbraio scorso per l’inaugurazione del nuovo centro penale, coi primi duemila mareros uniformati in boxer e seduti, mani dietro la nuca e schiena piegata, con i loro vistosi tatuaggi. Immagini che hanno fatto scattare le ennesime critiche da parte di diverse organizzazioni internazionali per i diritti umani, cui Bukele ha replicato in un discorso pubblico: “ci rimproverate di violare i diritti di questi poverini criminali perché gli togliamo i materassi; ma dove eravate quando questi stessi toglievano la vita a tanti salvadoregni?”.

Visto il successo, nel confinante Honduras, sconvolto anch’esso dalle padillas, la progressista presidente Xiomara Castro ha varato un analogo stato di emergenza. Senza avere però neanche lontanamente il controllo del parlamento, del potere giudiziario e men che meno dei militari che ha l’aspirante autarca Bukele nel suo paese. 

Al contrario sull’argomento è sorta paradossalmente una querelle via Twitter fra lo stesso Bukele (che in origine proveniva dalle fila del partito Fmln della ex guerriglia salvadoregna) e il presidente  colombiano Gustavo Petro (lui fino agli anni ’80 ex guerrigliero del M 19) il quale ha fatto osservare provocatoriamente al suo omologo salvadoregno che “nel nostro paese abbiamo ridotto il tasso di omicidi non con megacarceri o campi di concentramento ma con scuole e università”, fino a ridurre da 90 (nel 1993) alle odierne 13 le uccisioni per centomila abitanti. Con Bukele che gli ha risposto piccato: “voi ci avete impiegato trent’anni e noi in meno di un anno siamo scesi a una sola cifra” -aggiungendo- “e i morti non si recuperano!”

In effetti quella di Bukele rischia di rivelarsi un’insidiosa scorciatoia autoritaria che non va alla radice della povertà e delle disuguaglianze sociali di questo minuscolo quanto densamente popolato paese dove l’oligarchia storica le tasse di fatto non le paga neanche oggi; ed anzi ha sempre trattato i suoi subalterni come dei peones.

Sta di fatto che girare per le strade del tormentato El Salvador non è mai stato così tranquillo. E se prima una buona fetta dei suoi abitanti subiva terrorizzata le minacce delle bande, oggi si avventura a denunciare ogni sopruso (tranne quelli strutturali dei ricchi). E si augura che duri.

Mentre sul fallimentare esperimento presidenziale del bitcoin sembra averci già messo una pietra sopra.

Nell’immagine: fotografia di carcerati appartenenti alle maras messi in scena dall’ufficio stampa del governo salvadoregno; una pratica denunciata fra gli altri da Human Rights Watch






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