Cuba, gattopardi all’opera
L’embargo economico sostiene e perpetua il regime, tra vittimismo e orgoglio nazionale
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L’embargo economico sostiene e perpetua il regime, tra vittimismo e orgoglio nazionale
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L’embargo economico sostiene e perpetua il regime, tra vittimismo e orgoglio nazionale
Per anni ho frequentato Cuba, da turista ma assiduamente. Dell’isola mi piacevano poco parecchie cose (per dire delle minori: il fumo dei tubi di scappamento, il pane mollo, il prosciutto e il formaggio chimico delle colazioni), ma ho sempre apprezzato l’arguzia degli abitanti, il loro piacere per motti di spirito un po’ cinici, intelligenti e mai ovvi. E poi quello sguardo spesso colto e informato sul mondo e sulle cose; e, a dispetto delle condizioni materiali, un vivere non disperato né rassegnato, sempre con quel rinfrescante quotidiano piacere della battuta di spirito. Una società gestita in modo autoritario, familistico, ma nelle pieghe della quale i cubani riescono a vivere quel loro disincantato piacere per la discussione critica. Se non volete andare a Cuba, leggete i romanzi di Padura Fuentes, capirete quello di cui sto parlando.
Ora il “giovane” Castro se ne va, sostituito dal clone; la cupa uniforme si fa bianca guayabera, ma cambia ben poco. Il motto del nuovo conducator è, come si immaginava, progresso nella continuità. E tutti qui da noi a dirsi che è uno scandalo, che non se ne può più, che la gerontocrazia comunista gattopardescamente cambia ma solo per rimanere se stessa.
Quello che però non si dice abbastanza è che il motivo principale di questa immobilità, e del suo decennale perdurare a dispetto di tutto, è sostanzialmente esogeno. Vi sono infatti pochi dubbi che se fosse (stato) tolto il bloqueo statunitense, cioè l’embargo totale che l’anno prossimo compirà…sessant’anni, l’apertura delle frontiere e la circolazione di beni avrebbero introdotto nell’economia e nella società cubane un elemento di tale forza disgregante e dirompente da rendere rapidamente improponibile la continuazione del sistema. Con ovvio paradosso, il regime cubano si nutre, si giustifica (di fronte ai cittadini) e si perpetua proprio per l’esistenza di questo accerchiamento, che strangola da decenni l’economia: facile gioco, legittimante, è affermare che tutti i problemi dell’isola non sono causati dal sistema ma dal comportamento e dal cinismo degli americani, che priva il paese di risorse e tarpa le ali al socialismo caraibico. Aggiungo che questa situazione ha anche avuto l’effetto di mantenere una certa coesione nazionale, alimentando un orgoglioso patriottismo e creando addirittura (tenue, ma comunque) consenso attorno alla narrazione retorica del regime. Il bloqueo perpetua il regime, né più né meno.
Sul fronte USA, la logica e il senso dell’embargo non risiedono più in considerazioni ideologiche e geo-strategiche ormai superate, ma principalmente in esigenze interne, elettoralistiche; anche in questo caso, gattopardescamente. In effetti, con accenti e proclami diversi, i vari candidati alla presenza USA hanno negli anni però accuratamente evitato di proporre aperture per non mettersi contro la vasta comunità dei votanti latini e degli espatriati, che cullano ancora sogni di controrivoluzione violenta, nel solco di un classico revanscismo da esuli.
Obama aveva suscitato qualche speranza, ma significativamente solo a partire dal secondo mandato (quindi in un momento in cui poteva permettersi di osare l’altrimenti inosabile, senza rielezioni in prospettiva), le aveva spente del tutto il suo successore e non potevamo aspettarci altro da lui. Non si vede bene che cosa possa produrre Biden, si spera però che la caraibica (per metà) Kamala Harris sia in grado di patrocinare – magari da presidente… – un cambio di passo che sblocchi una situazione ingessata da troppo tempo.
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