Dalli all’ assembramento, ma non sempre
All'aperto è decisamente un'altra storia, ma bisognerebbe spiegarlo meglio
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All'aperto è decisamente un'altra storia, ma bisognerebbe spiegarlo meglio
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All'aperto è decisamente un'altra storia, ma bisognerebbe spiegarlo meglio
È successo un po’ ovunque: la caccia al “runner” in Italia lo scorso anno, ancora recentemente le spiagge chiuse in California, addirittura cariche della polizia a cavallo per disperdere la gente che affollava un parco, venerdì scorso a Bruxelles. Gli esempi potrebbero continuare a lungo e il Ticino e più in generale la Svizzera non potevano ovviamente fare eccezione.
Uno dei temi più discussi del week-end pasquale è così stato quello degli assembramenti: soprattutto a Lugano, dove piazza Cioccaro è stata letteralmente invasa da giovani e meno giovani. E sicuramente, complici le dimensioni ridotte della piazza, fra tutta quella gente senza mascherina, spalla a spalla a fumare e bere, chiacchierare ridere e scherzare, dei contagi ci sono stati.
Ma è davvero così grave? “Nell’ultimo anno – scrive Zeynep Tufekci – media tradizionali e social media si sono fatti più volte prendere dal vizio di mettere alla berlina” assembramenti di vario genere e dimensione, quando il pericolo è altrove.
Zeynep Tufekci è una sociologa che insegna all’Università del Nord Carolina e scrive su The Atlantic e sul New York Times. Pur non essendo epidemiologa o virologa, nel corso della pandemia è stata una delle voci più interessanti che conosca. La frase che ho citato è tratta da una sua riflessione pubblicata a metà marzo e intitolata “I cinque errori che continuiamo a ripetere” (5 Pandemic Mistakes We Keep Repeating): è un lungo articolo ma a chi legge l’inglese lo consiglio.
Tra gli errori che la prof. Tufekci evidenzia vi è quello di non aver tenuto conto del ruolo degli aerosol nella trasmissione del virus e quindi non aver differenziato le regole di comportamento a seconda che ci si trovasse all’interno o all’esterno. Errore ancor più grave, spiega, per il fatto che la maggior parte dei contagi è causata “da poche persone che in un’unica occasione ne infettano molte, mentre la maggior parte delle persone non contagia nessuno”.
Si tratta del fenomeno dei superspreaders o dei superspreading events, come lo definiscono in inglese. Nel caso del SARS-CoV-2 si calcola che su dieci persone infette un paio ne contagino una o due, una ne contagi sette o otto, mentre le altre non contagino nessuno. Non è solo questione di fattori individuali, molto lo fa il contesto: “spazi chiusi mal ventilati – sottolinea Zeynep Tufekci – possono facilitare la diffusione del virus su distanze più lunghe e in tempi più brevi” rispetto a quelli considerati dalle attuali misure di sicurezza; “all’esterno è l’opposto”.
La ragione è semplice: all’aperto il virus si disperde molto rapidamente e i raggi del sole lo disattivano. Tanto che, dopo un anno di pandemia, ancora non è stato documentato un solo superspreading event all’esterno, contro le decine avvenuti in spazi chiusi (ristoranti, palestre, uffici e altri posti di lavoro).
Ciononostante a far parlare sono sempre ancora gli assembramenti, con conseguenze assurde: non solo la chiusura di spazi all’aperto (come lo scorso anno era successo anche in Ticino), ma anche di precludere un’importante valvola di sfogo a chi, dopo un anno di pandemia, è stanco di restrizioni (e lo siamo tutti).
Importante sarebbe invece informare sul modo in cui il virus si trasmette e dare a tutti la possibilità di proteggersi. È quanto hanno fatto in Giappone, invitando a evitare le “tre C”: spazi chiusi, luoghi affollati e contatti stretti.
Socializzare fa parte della natura umana, cerchiamo però di farlo senza correre troppi rischi: se proprio non riusciamo a evitare luoghi affollati e contatti stretti, per lo meno stiamo all’aperto.
E, se la conseguenza sarà qualche assembramento, pace.
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