Di varianti e di svarioni
Da ieri ci sarebbe anche una “variante svizzera”. Ma a preoccupare è soprattutto la cosiddetta “variante indiana”
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Da ieri ci sarebbe anche una “variante svizzera”. Ma a preoccupare è soprattutto la cosiddetta “variante indiana”
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Da ieri ci sarebbe anche una “variante svizzera”. Ma a preoccupare è soprattutto la cosiddetta “variante indiana”
Ed ecco anche la “variante svizzera”! Lo ha annunciato ieri La Stampa: “Primo caso di variante svizzera in Piemonte: è altamente infettiva come quella inglese”, titolava il quotidiano torinese. A scoprire il nuovo ceppo, si legge nel testo, è stato l’Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico (IRCCS) di Candiolo. È stata isolata in un uomo di 57 anni che già aveva avuto la CoViD19 in novembre e si è sottoposto al tampone perché era entrato in contatto con una persona infetta.
Altri dettagli sulla nuova variante non ci sono, per cui la notizia va presa con le pinze, anche perché, come c’è la pornografia del dolore, negli ultimi mesi si è sviluppata la pornografia delle varianti che saltano fuori da ogni dove, manco a dire tutte contagiosissme e pericolosissime.
“Questo genere di articoli serve a poco. Senza maggiori informazioni, è impossibile sapere cosa hanno trovato in questo campione e perché lo chiamano ‘variante svizzera’ “. In un tweet, ecco il commento della dottoressa Emma Hodcroft. La ricercatrice all’Università di Berna è tra i massimi esperti del tema e definisce l’articolo della Stampa “un buon esempio del perché i nomi geografici sono al tempo stesso dannosi e non informativi. (…) Alimentano le speculazioni e questo non aiuta” (qui).
Se poi la “variante svizzera” fosse la B.1.1.39 come sosteneva ieri il Blick, “non c’è nulla di nuovo e dalle informazioni disponibili non si capisce bene perché dovrebbe essere molto preoccupante”, conclude in un altro tweet la cacciatrice di virus, come è stata definita per essere stata tra i fondatori di Nextstrain, un’organizzazione che traccia in tempo reale l’evoluzione di numerosi virus, SARS-CoV-2 compreso.
Ma, in attesa di maggiori informazioni su quella svizzera, è stata proprio una variante a fare notizia lo scorso week-end: l’annuncio che anche in Svizzera è arrivata la cosiddetta “variante indiana”, la B.1.617. O, per essere più precisi, che era arrivata a fine marzo e quindi, con buona probabilità, nel nostro paese si sta ormai diffondendo da alcune settimane.
Questo il tweet con cui, sabato in tarda mattinata, l’Ufficio federale della sanità pubblica ha dato la notizia: “Il primo caso della variante indiana del COVID 19 è stato trovato in Svizzera. Si tratta di un passeggero che era entrato attraverso un aeroporto di transito. La consultazione sull’inserimento dell’India sulla lista dei Paesi a rischio è in corso”.
Ritardo della comunicazione a parte, che ci si debba ancora consultare sull’inserimento dell’India nella lista dei Paesi a rischio la dice lunga su come la Svizzera stia affrontando la pandemia. Della situazione indiana c’è poco da dire se non che i contagi stanno esplodendo (se ne registrano più di 300 mila al giorno), così come i decessi (più di duemila al giorno, dati di Our World in Data), tanto che c’è chi teme che si possa arrivare a più di due milioni di vittime (a oggi sono 200 mila).
Della variante, per quante notizie allarmanti si siano lette (a cominciare dalla cosiddetta doppia mutazione che in termini scientifici non significa nulla), per ora si sa poco: al momento non è nemmeno nel novero delle VOC, le varianti pericolose (Variants of Concern), anche se è un’osservata speciale; e soprattutto non si sa se è davvero all’origine dell’esplosione dei casi in India e tanto meno se si rivelerà resistente ai vaccini (qui le valutazioni di due esperti).
Ciononostante, prendere delle precauzioni sarebbe il minimo. Certo però che l’inserimento dell’India nei Paesi a rischio servirebbe a poco, se poi succedesse come con il Brasile, altro paese ad alto rischio per l’alta incidenza della pandemia e per la presenza di una variante, la P1, indubbiamente pericolosa: i voli da quel paese continuano ad atterrare negli aeroporti svizzeri perché, ci dicono le nostre autorità sanitarie, anche proibendoli non avremmo la garanzia che dal Brasile non arrivino comunque dei passeggeri, transitando da altri aeroporti…
Che aggiungere, se non che lo #SwissCovidFail proprio non conosce eccezioni!
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