Dibattito sulla cultura e cultura del dibattito
La RSI merità tutta l’attenzione e la preoccupazione che si stanno manifestando, ma merita anzitutto un più adeguato ed approfondito confronto fra le parti in gioco, un “vero confronto di idee”
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La RSI merità tutta l’attenzione e la preoccupazione che si stanno manifestando, ma merita anzitutto un più adeguato ed approfondito confronto fra le parti in gioco, un “vero confronto di idee”
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La RSI merità tutta l’attenzione e la preoccupazione che si stanno manifestando, ma merita anzitutto un più adeguato ed approfondito confronto fra le parti in gioco, un “vero confronto di idee”
La complessa questione ha, ad esempio, accompagnato la nascita dell’Università, oppure le reiterate rivendicazioni di pari trattamento, rispetto alle altre regioni linguistiche nazionali, del servizio pubblico radiotelevisivo italofono da parte della SRG/SSR.
In nome del proprio statuto di “minoranza” la Svizzera italiana ha costantemente sollecitato la dovuta attenzione verso la propria condizione “periferica” e “sfavorita”, oggetto a volte di qualche deplorevole esempio di disinteresse (verso la sua rappresentatività in consessi nazionali, per esempio, ma anche verso la stessa lingua, non di rado bistrattata), ottenendo però quasi sempre quanto richiesto, anche ben oltre le più rosee aspettative.
Se pensiamo alla SSR, ad esempio, sarà ben noto il principio cardine della cosiddetta “chiave di riparto” (clé Helvetia!) che fa si che l’Unità Regionale che si indirizza principalmente al 4% della popolazione (quella, appunto della Svizzera italiana) riceve da Berna quasi il 20% del budget complessivo per realizzare progetti e programmi in quantità analoga a quanto avviene nelle altre regioni.
Insomma, in nome della nostra “identità” e in virtù di un formale rispetto per questo “valore aggiunto nazionale”, la RSI, nei decenni ha ottenuto i mezzi per creare reti radiofoniche e canali pari a quelli di SRF e RTS. Certo, sempre con la necessità di produrre con un minor numero di collaboratori rispetto a quanto avviene a Zurigo o a Ginevra/Losanna, ma ottenendo pur sempre un riconoscimento concreto, che economicamente viene concesso alla Svizzera italiana, per i 4/5, dalle tasche dei contribuenti che vivono oltre Gottardo e parlano tedesco o francese.
Si tratta di una decisione “politica” che indubbiamente favorisce la Svizzera italiana ma che non è detto debba restare tale in un momento di particolare difficoltà economica del paese.
Ora, quando al Sud delle Alpi ferve il dibattito sulla “cultura in RSI”, quando si raccolgono 10 mila firme per battersi contro lo “smantellamento di Rete Due”, in che misura e in che modo si considera che si sta parlando di una situazione assolutamente “eccezionale”, di cui si è goduto per decenni e che ora viene messa in discussione non solo o non tanto da un fantomatico progetto interno all’Azienda, quanto da una situazione economica generale del servizio pubblico radiotelevisivo (e online) che anche nelle altre regioni ha portato e porterà a drastici tagli, specie, sembrerebbe, nell’ambito delle emissioni culturali “lineari”?
Un cospicuo numero di intellettuali è intervenuto a vario titolo e in vario modo sulla questione specifica del destino di Rete Due, invocando una serie di principi, seri e legittimi per carità, ma che tornano come un mantra a poggiarsi sull’idea che una certa condizione diciamo pure “privilegiata” (figlia di un paese ricco che rispetta la propria “multiculturalità” con un contributo che non ha paragoni al mondo) debba per forza restare tale in eterno.
Un dibattito così condotto, che in sostanza, con le più disparate e valide ragioni, chiede alla Rete Due, improvvisamente designata caposaldo e vessillifero della produzione culturale nella Svizzera italiana, di restare quello che è, appare davvero un dibattito molto parziale, specchio di quello che è sempre stato il rapporto fra il mondo culturale svizzero-italiano e la RSI, in cui scrittori, attori, artisti, registi, hanno sempre trovato una cassa di risonanza assicurata (e magari anche remunerativa) più che un interlocutore dialettico o un’autonoma agenzia culturale.
Quanti interventi fra quelli legati all’attuale dibattito, battono ancora il chiodo (fisso) dei “diritti” della RSI legati allo statuto di “minoranza culturale della Svizzera italiana”, senza mai immaginare, per la radio ad esempio, ipotesi che la mettano maggiormente in relazione con la cultura prodotta nelle altre regioni nazionali?
Quanti interventi si fondano su concetti tutti da discutere, come ad esempio quelli della radio lineare che fa comunità, della televisione che volgarizza e banalizza, dell’online che riduce gli utenti a monadi in balia degli algoritmi?
E l’alternativa a tutto questo presunto degrado? Sostanzialmente lasciare le cose come stanno, come sono sempre state, fin dai tempi di Franco Liri, lo pseudonimo che l’ex-Direttore Bixio Candolfi usava per scrivere “La costa dei barbari” riutilizzato in questi mesi come “nom de plume” da un anonimo artefice di numerosi interventi e prese di posizione anche via social.
Un dibattito che vuol provare ad entrare davvero nel merito di un problema che è un vero problema, ci mancherebbe, a maggior ragione in questi tempi pandemici (che improvvisamente fanno capire, per difetto, anche quanto indotto economico è prodotto dalla cultura), ha tutto il diritto (anzi il dovere) di “denunciare” il progressivo ed inesorabile impoverimento di mezzi e di contenuti dell’azienda transmediale di servizio pubblico, ma lo deve fare, verrebbe da dire, con “cognizione di causa”, conoscendo e considerando attentamente le condizioni in cui si muovono la RSI e la SSR dentro il quadro della propria legittimità politica ed il terremotato panorama massmediatico, capendo che per tutta risposta un servizio pubblico come il nostro che vive da tempo sotto assedio, ha il torto di essersi rinchiuso dentro il proprio fortino dell’autolegittimazione a tutti i costi, mostrandosi incapace di comunicare verso l’esterno e dialogare con il pubblico. Ecco un vero problema, un dibattito che si alimenta senza che l’Azienda sappia (o voglia) esprimere le proprie intenzioni.
Se ci si fa caso, si sta parlando di un “bene comune”, che sta a cuore a tutti, finanziato da tutti, che meriterebbe un vero “dibattito”, aperto e volto alla condivisione di idee e progetti che guardino al futuro, che dal passato colgano esempi virtuosi come spunti per un nuovo slancio dell’Azienda e non solo per far restare la Rete Due il baluardo dei valori democratici e la culla della riflessione controcorrente sullo scibile umano.
La RSI merità tutta l’attenzione e la preoccupazione che si stanno manifestando, ma merita anzitutto un più adeguato ed approfondito confronto fra le parti in gioco, un “vero confronto di idee”.
Per ora sembra invece, con tutte le buone intenzioni che gli vanno riconosciute, una rassegna di posizioni, rivendicazioni, preoccupazioni espresse da intellettuali su un ambito che conoscono poco o per nulla, rivolte ad un’azienda che tace e continua ad affidare il proprio futuro ad ermetiche decisioni strategiche.
La questione cruciale, a questo punto, è che un vero “dibattito” non c’è.
Questo sì, dovrebbe preoccupare molto.
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