Dimissioni di un vescovo; cosa non dicono, e cosa dicono
dopo l’annuncio di mons. Valerio Lazzeri, quali sono i segnali che prescindono dalla decisione di un singolo e toccano invece un problema all’interno della Chiesa
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dopo l’annuncio di mons. Valerio Lazzeri, quali sono i segnali che prescindono dalla decisione di un singolo e toccano invece un problema all’interno della Chiesa
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dopo l’annuncio di mons. Valerio Lazzeri, quali sono i segnali che prescindono dalla decisione di un singolo e toccano invece un problema all’interno della Chiesa
Don Valerio, invece, afferma di aver sempre preso sul serio le sue responsabilità da vescovo, di aver avuto “validi e competenti collaboratori”, sottolinea anche «momenti e incontri indimenticabili», nonché di aver ricevuto “doni inattesi, in abbondanza e spesso”. Si è letteralmente spogliato di qualsiasi giustificazione su motivi oggettivi per questa rinuncia, evitando ad esempio ogni presa esplicita di responsabilità per i casi di scandali e malagestione negli ultimi anni, che segneranno inevitabilmente il ricordo del suo ministero, e che, anche solo parzialmente, sarebbero stati sufficienti a fornire una solida motivazione a questo passo.
Considerato tale modo di andarsene decisamente insolito, emerge automaticamente un sottostante di peso, che per sua chiara scelta non viene esplicitato. Se dopo nove anni, in quel lunedì 10 ottobre ore 12.00, don Valerio è stato “finalmente sé stesso”, come ha commentato Luigi Maffezzoli in un’intervista, allora bisogna affermare la medesima cosa anche per le modalità di questa scelta: infatti, stando alla percezione pubblica, egli ha sempre fatto fatica nell’assumersi le responsabilità (si è detto di tipo “politico” o “manageriale”) nella gestione della diocesi. Tuttavia, si impone la domanda se non siano stati proprio gli scandali, tutti emersi negli ultimi quattro anni, a spingerlo a lasciare, mentre si può presumere che nei primi anni il peso amministrativo e di esercizio dell’autorità non fu vissuto così male da Mons. Lazzeri.
Ma che cosa significa tutto ciò, in vista di una comprensione più profonda del motivo di queste dimissioni?
Evidentemente, non si tratta di un burnout o una depressione, che sarebbe sempre un motivo oggettivo, cioè di salute appunto, ma della sincera incapacità (in un momento di difficoltà?) di dare un significato a una delle vocazioni più alte in un’istituzione come la Chiesa, che reclama per sé stessa di essere quella che per eccellenza dà senso e orientamento. Inevitabilmente, il fin troppo evidente rifiuto di Don Valerio a indicare, nel suo discorso non del tutto felice, un motivo oggettivo e solido – al di là della rivendicazione di rispetto per una decisione del tutto personale – aggiunge un elemento in più sull’attuale situazione della Chiesa, sia locale sia universale (o perlomeno a livello europeo), che non si limita al singolo vescovo. Tant’è che nessuno mette anche lontanamente in dubbio l’autenticità e la sincerità della sua scelta “in coscienza”. La nomina di un amministratore apostolico, Mons. De Raemy, a cui la santa Sede ha conferito ampie deleghe, forse riesce a tamponare temporaneamente la situazione e a preparare il terreno per il successore, ma sicuramente non rimedia alla questione più profonda: ossia se non si tratti di un ‘segno dei tempi’.
Sia chiaro, una rondine non fa primavera, ma il fatto che nella stragrande parte dei ticinesi prevale (giustamente!) comprensione e rispetto è una chiara indicazione che il modo in cui la Chiesa si presenta nelle strutture gerarchiche ed amministrative non corrisponde più al sentire comune e alle esigenze della società (occidentale) di oggi. Quanti preti soffrono il peso amministrativo di maxi parrocchie e non trovano più il tempo per vivere la propria vocazione spirituale e per animare la comunità? Quanti vescovi si nascondono dietro all’esercizio di autorità invece di realizzare una Chiesa “ospedale da campo”? Quanti fedeli sentono la Chiesa più lontana che mai e incapace di coinvolgere ed essere protagonista nel panorama culturale?
Probabilmente, e questa è una cosa importante che ci indica la decisione di don Valerio, è la struttura della Chiesa stessa che nella sua autocomprensione gerarchica e autoritaria respira più l’eredità del Concilio di Trento (nel ’500) che non le aperture del Concilio Vaticano II e che – come diventa emblematico proprio nella modalità delle dimissioni, dopo pochi anni di ministero, di un vescovo giovane – non è più “generativa”. Non che la fede cristiana non lo fosse più, e questo vale per tante realtà cattoliche sul nostro territorio e ovunque nel mondo: qui si tratta della “generatività” della Chiesa. Davvero non è pensabile una realizzazione della dimensione politico-amministrativa più “partecipativa” per i laici (per evitare la parola “democratica”), e di quella manageriale, per così dire, più “fraterna” con i sacerdoti? E se al riguardo non esistono né visioni né prospettive, allora vuol dire che manca un’ecclesiologia all’altezza del “dato antropologico” odierno, e ci si chiede su che cosa abbia lavorato la teologia negli ultimi decenni. Soltanto tramite nuove prospettive ecclesiologiche, però, la Chiesa può dare maggior rilievo ad un messaggio che pur non essendo “di questo mondo”, è decisamente “per questo mondo”, anziché oscurarlo con i continui intoppi nell’autogestione e con gli ‘affari di corte’ che certamente suscitano curiosità, ma più per la speculazione sul nome del nuovo vescovo che non per il contenuto dell’annuncio che è chiamata a dare.
Markus Krienke è professore ordinario di Filosofia moderna ed Etica sociale presso la Facoltà di Teologia di Lugano
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