Diritti ai confini
Storie di vite in fuga, chiamate a ricucire lo strappo dell’esilio, a riannodare i fili della propria identità lacerata
Filtra per rubrica
Filtra per autore/trice
Storie di vite in fuga, chiamate a ricucire lo strappo dell’esilio, a riannodare i fili della propria identità lacerata
• – Raffaella Carobbio
La Banca Nazionale soccorre CS con 50 miliardi, ma non è per niente scontato che bastino per scongiurare un fallimento epocale, che si poteva almeno provare a prevenire
• – Enrico Lombardi
Le reazioni e le manovre del clero tradizionalista americano e dei suoi sostenitori all’operato decennale di papa Francesco
• – Silvano Toppi
Stampa / Pdf
• – Franco Cavani
Alla nuova segretaria dei Democratici italiani tocca il compito, nel compattare le diverse “anime” del partito, di rassicurare la componente cattolica
• – Ruben Rossello
Al centro della vicenda, al tramonto dell’era Eltsin, il Kremlingate, un affare giudiziario internazionale con protagonista una società di Paradiso
• – Federico Franchini
Scontro ai voti, in Gran Consiglio, sul tedesco in Prima Media: ha prevalso, una volta di più, un’idea “strumentale” di formazione scolastica, tutta orientata verso gli sbocchi professionali
• – Adolfo Tomasini
La permanenza di una “società delle famiglie” dietro le vetrine del boom immobiliare e delle criptovalute non offre segnali incoraggianti alle nuove generazioni (che infatti preferiscono fare le valigie)
• – Orazio Martinetti
Ci ha lasciati l'inventore del "Fosbury Flop" che aveva stupito il mondo dando la schiena all'asticella del salto in alto
• – Libano Zanolari
Il pur vago piano di pace cinese ha provocato qualche reazione positiva ma rischia di arenarsi di fronte all’intransigenza del neo-zar e all’ossessione imperialista degli Stati Uniti - Di Franco Cavalli
• – Redazione
Storie di vite in fuga, chiamate a ricucire lo strappo dell’esilio, a riannodare i fili della propria identità lacerata
Quello spazio fisico vuoto, quella terra di nessuno, si è allora popolata di donne, bambini, uomini in fuga, un’umanità che si aggrappa alla speranza di accoglienza senza poter dimenticare la paura di essere di nuovo scacciata, di un altro esilio. Uno spazio di attesa e di sospensione, dunque.
Questo ricordo, queste immagini di un momento, vissuto ormai otto anni fa, mi tornano in mente mentre sto rileggendo (ancora!) l’articolo che Hannah Arendt aveva dedicato ai rifugiati, e ripenso alle tante persone che ho incontrato e che hanno rischiato o rischiano di venire rispedite in altri paesi o rimpatriate: sono le storie (ma soprattutto le vite) di persone come la famiglia Gemmo, India, Khaleda e Satayesh e, non da ultimo, la vicenda di Mezhde, di suo marito e dei suoi due figli. Alcune di queste vicende si sono concluse positivamente con il diritto a rimanere, altre sono ancora in sospeso, altre ancora hanno avuto un esito negativo.
Quello che mi colpisce è che queste persone – quante volte ne abbiamo letto sentito parlare? – hanno dedicato e dedicano impegno e tempo (mesi, addirittura anni) a integrarsi: a imparare una nuova lingua, nuovi costumi, a conoscere il Cantone e Comune cui sono state assegnate, i vicini di casa, gli operatori sociali, i docenti, … a iniziare e portare avanti una formazione o la ricerca di un lavoro. E, piano piano, a ricucire lo strappo dell’esilio, a riannodare i fili della propria identità lacerata. Sì, perché quel limbo che, nella finzione teatrale, era lo spazio di nessuno tra le due “ramine”, queste persone lo portano dentro di sé: è la fragilità e la vulnerabilità di chi viene considerato – sono parole della Arendt – “schiuma della terra”, quella che non smette di fluire. È la condizione di chi non ha più un suo posto nel mondo (privato di relazioni e di legami), corpo estraneo.
Un’estraneità che rende invisibili, “superflui” e che va di pari passo con l’indebolimento, se non addirittura la perdita, dei propri diritti fondamentali. Un’estraneità che disumanizza a tal punto che non contano più né la formazione, né l’integrazione, né il fatto di lavorare, pagare le tasse e i contributi sociali: l’abbiamo visto in vari casi ed è sconcertante: qualche anno fa mi ero occupata del caso di una persona di origine irachena che avrebbe dovuto lasciare la Svizzera poiché non aveva, secondo la decisione della Segreteria di Stato della migrazione, diritto di restare. Una persona che aveva svolto una formazione professionale con pieno successo, aveva imparato l’italiano, aveva trovato un lavoro che le permetteva di essere totalmente indipendente e pagarsi un appartamento che aveva arredato, le imposte, la cassa malati, AVS, … una persona a tutti gli effetti ben integrata e apprezzata dal suo datore di lavoro (che ha fatto di tutto perché gli permettessero di rimanere) dai vicini, dalla comunità. Eppure, questo non sembrava essere abbastanza per restare, tant’è che quella decisione negativa lo ha costretto a lasciare il lavoro, a rinunciare al suo appartamento e a tutte le sue cose, infine a trasferirsi al centro collettivo di Croce Rossa, a Cadro, dove è rimasto per parecchi mesi, prima di vedersi…rimpatriare? No, per fortuna non è successo questo: dopo vari ricorsi il suo caso è stato rivalutato e ha ottenuto il diritto di restare, ma per ricominciare di nuovo daccapo (perché dopo così tanto tempo anche le condizioni che aveva lasciato erano mutate), un’altra volta, in un altro contesto, con un lavoro diverso da quello che si era impegnato a imparare e che gli piaceva.
Quando ho saputo che aveva ottenuto un permesso di soggiorno la cosa mi ha fatto ovviamente piacere, ma non ho potuto non ripensare a tutto quello che gli è stato tolto (per la seconda volta) e a tutte le volte che lo incontravo mentre passeggiava lungo il Cassarate e mi diceva “sono ancora lì, cerco di prendermi cura di me, di non lasciarmi andare…io non posso tornare in Iraq perché mi ammazzano. Ma anche questo tempo senza fare nulla, senza possedere nulla, sospeso in questa attesa, mi uccide”.
Per una storia andata a buon fine (e non è l’unica che dopo percorsi travagliati e dolorosi, si è conclusa con una revisione del caso e della decisione) tante ancora sono sospese. Spesso del sostegno e della difesa dei diritti di queste persone – donne, bambini, uomini, famiglie – si è fatta portavoce la comunità nelle sue differenti forme: il paese, i compagni di scuola con i docenti, i compagni della squadra di calcio. E allora mi chiedo, me lo sono chiesta ogni volta per ogni vicenda: ma non basta questa appartenenza? Questo sentire e sentirsi parte di una comunità che accoglie? Se, come scrive la Arendt, la perdita di diritti va di pari passo alla perdita di comunità, in molti casi che abbiamo letto e conosciuto quella perdita è stata colmata con una nuova appartenenza, tanto che la comunità si è fatta portatrice e si è messa in gioco per difendere e far riconoscere quei diritti.
Nell’immagine: cancello lungo la rete metallica al confine tra Svizzera e Italia, Val della Crotta (Foto Paolo Crivelli, Museo etnografico della Valle di Muggio)
E pensare che ci sono governi che vorrebbero addirittura tassarti per i tuoi peti inquinanti…
Arrivata finalmente, dopo un terremoto di 240 miliardi di dollari, una chiara richiesta al Municipio di Lugano sulle sue strategie da “capitale dei bitcoin”