Donald riparte dal Rabadan
Trump è tornato. E per farlo ha scelto una sorta di Rabadan dei conservatori più conservatori d’America
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Trump è tornato. E per farlo ha scelto una sorta di Rabadan dei conservatori più conservatori d’America
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• – Rocco Bianchi
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• – Aldo Sofia
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• – Franco Cavani
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Un po' più di prudenza avrebbe permesso a stampa e inquirenti di sopravvivere al disgregarsi assai prevedibile delle ipotesi accusatorie
• – Marco Züblin
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• – Redazione
• – Franco Cavani
Trump è tornato. E per farlo ha scelto una sorta di Rabadan dei conservatori più conservatori d’America
Ci eravamo quasi dimenticati di Donald Trump. Per sette settimane – complice il bando post assalto a Capitol Hill di Twitter, Facebook, YouTube e Instagram – il risveglio di migliaia di giornalisti (e non solo giornalisti: anche politici, capi di stato, ministri e qualche consigliere federale) è stato graziato dal controllo, che era diventato degenere e compulsivo, dell’account twitter @realDonaldTrump. E, devo confessarlo, passare qualche settimana senza gli strali/cinguettii mattinieri dell’ex commander in chief è stato riposante, quasi rassicurante. Un mondo senza Donald Trump può esistere. Dovrebbe esistere. E in tutta franchezza i suoi tweets non ci sono mancati. Al contrario.
Ma adesso Trump è tornato. E per farlo ha scelto la platea più accondiscendente e scodinzolante che possa esistere: la conferenza CPAC, una sorta di Rabadan dei conservatori più conservatori d’America. E non ho scelto un paragone carnascialesco per il gusto di essere irriverente, la CPAC l’ho seguita per sei anni ed è davvero un carnevale, gioioso e giocoso fino a un certo punto, della destra americana. Cow-boys dell’America profonda, tele-predicatori evangelici, bionde ossigenate delle Women for Trump, qualche deputato nostalgico del Tea Party, gli immancabili crociati del secondo emendamento, quello che sancisce il diritto universale di portare un’arma da fuoco, senza condizioni o restrizioni. Fino all’anno scorso il ritrovo si svolgeva in Maryland, in un centro congressi sulle rive del Potomac, a pochi chilometri da Washington Dc. Questa volta, causa covid-19 e per compiacere l’ex presidente in congedo sabbatico a Mar-a-Lago, l’incontro ha avuto luogo a Orlando, Florida.
«Non formerò un nuovo partito» ha rassicurato la platea Donald Trump. Anche perché provocare uno scisma dentro il partito repubblicano significherebbe – nel sistema storicamente bi-partitico statunitense – decretare la condanna a morte del GOP e vanificare ogni speranza di vittoria nei prossimi giri elettorali. E le elezioni di midterm – con in gioco l’intera camera dei deputati e un terzo del senato – sono ormai dietro l’angolo.
Ma la notizia, per la democrazia americana, non ha nulla di rassicurante. Perché esprime e riflette il desiderio dell’ex presidente di continuare a svolgere il ruolo del kingmaker dentro un partito che per quattro anni si è lasciato prendere in ostaggio da Trump e che ora – del tutto disorientato – non sa bene che strada intraprendere. A breve termine, i repubblicani dipenderanno ancora da The Donald e dalla sua presa sulla basa dell’elettorato. Un elettorato che continua a credere alla sua menzogna dell’elezione rubata e che continua e continuerà a ritenere Joe Biden un presidente illegittimo. D’altro canto, tutti i big repubblicani sanno benissimo che a medio-lungo termine il cordone ombelicale che lega il partito all’ex presidente può soltanto lasciare scorie tossiche e infettare, in termini elettorali, le possibilità del partito di rinnovarsi e ritornare competitivo al di là del pericoloso culto della personalità di Trump.
Insomma, un bel grattacapo. E in mezzo a tutto questo c’è il nuovo presidente, Joe Biden. Che se da una parte ha ottenuto un eccellente risultato con l’incedere spedito della campagna di vaccinazione – 50 milioni di cittadini hanno ricevuto la prima dose in appena 37 giorni di presidenza, in anticipo sulla tabella di marcia – dall’altra inizia a sentire il logorio dello studio ovale, con i lembi della giacca presidenziale strattonati dalla sinistra che chiede più rappresentatività e dalla complessità delle sfide geo-politiche. Fare il duro con Xi Jinping è la strategia giusta? Auspicare un ritorno di Teheran al tavolo negoziale sul nucleare e poi bombardare una presunta base operativa iraniana in Siria è la mossa più sensata? E di fronte al colpo di stato in Myanmar e alla sanguinaria repressione dei civili, che fine faranno i tanto sbandierati diritti umani?
Per ora, Biden si gode l’abbraccio degli alleati e il sollievo per il ritorno dell’America all’atlantismo e al multilateralismo, concetti che Trump aveva sdoganato come obsoleti. Gli americani si aspettano il passaggio al Congresso del pacchetto di rilancio anti-Covid da 1900 miliardi di dollari. La prima emergenza, per il nuovo presidente, si trova dentro i confini americani. Ed è già una bella sfida. Il mondo, in fin dei conti, ha pazientato quattro anni. Di certo può attendere ancora un po’.
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