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“The Apprentice” si chiamava il reality tv che negli Stati Uniti aveva reso popolarissimo Donald Trump, il quale con i 427 milioni di dollari intascati dai produttori e dalle ricadute imprenditoriali favorite dal programma, riuscì a salvare dalla bancarotta le sue malmesse società. Allora, per lui, l’entrata in politica era forse una vaga idea, sicuramente non ancora un progetto. Nello show Trump era un implacabile giudice di concorrenti chiamati a dimostrare le loro capacità eventuali imprenditoriali. Per molti malcapitati concorrenti, la prova si concludeva con il famoso “You’re fired”, “sei licenziato!”. Ecco, ieri, nelle immagini scattate dai pochi fotografi ammessi all’incontro dell’ex capo della Casa Bianca con la “giustizia” che gli comunicava i capi d’accusa e lo stato (teorico) di messa agli arresti, lui, il “Don” aveva la stessa espressione fra l’imbronciato, il deluso, l’incazzato dipinta sul volto dei suoi ex ospiti televisivi bocciati e fulminati davanti alla nazione.

Insieme alla lunga colonna di limousine nere dirette al posto di polizia per la formalizzazione dell’incriminazione, quell’istantanea rimarrà nella storia, anche se non proprio con una nobile “S” maiuscola. Non era mai accaduto che un ex presidente della super-potenza fosse trascinato in tribunale. Forza della democrazia per cui per principio nessuno è al di sopra della legge? Forza di un sistema americano che si basa sull’indispensabile “check and balance”, l’equilibrio fra poteri e contropoteri della democrazia parlamentare stabiliscono credibilità e maturità?

Perché questo punto, dopo aver ripetuto all’infinito che l’incriminazione fa il gioco politico dell’accusato (i cui fondi elettorali in una sola settimana si sono riempiti di almeno altri 20 milioni di dollari), questo dicevamo è l’aspetto oggi più che mai sostanziale.

Il sistema della giustizia americano non è affatto un modello di imparzialità giuridica. Eletti dal popolo sono gli sceriffi e i procuratori generali, con le loro ben marcate, pubblicizzate convinzioni politiche. Si può immaginare con quanta imparzialità o con quali rischi per la giustizia eserciteranno il loro mandato, visto che devono ingraziarsi i votanti che li hanno eletti e soprattutto che li dovranno riconfermare. Lo stesso Trump ha approfittato di questo modello.

Come altri suoi predecessori, negli anni della presidenza ha spostato ideologicamente e programmaticamente a suo favore addirittura la composizione della Corte Suprema, con nomine che hanno imposto alla massima espressione della ‘garanzia giuridica’ americana una netta maggioranza di giudici di destra, alcuni dei quali appartenenti ad un’associazione di magistrati nota per il suo ultra-conservatorismo. Da qui, per esempio, la scellerata sentenza che vieta l’aborto a livello federale (devono decidere i singoli Stati, quindi, e di nuovo, giustizia messa nel tritacarne degli impulsi politici del momento).

Nel caso di “Stato vs Trump” va segnalata poi una anomalia, una stranezza, un paradosso che vale per tutti e che ha le sue radici in un corpo normativo-costituzionale davvero bizzarro e quantomeno da riformare dopo oltre due secoli: negli Stati Uniti un detenuto non può votare, ma pur rimanendo in cella può candidarsi e diventare presidente.

Non sarà comunque il caso del 45esimo capo di stato americano (il 46esmo è Joe Biden), che vuole tornare a pilotare la nazione, nel suo modo divisivo, dall’Ufficio Ovale, al 1600 di Pennsylvania Avenue, Washington. Fra i 34 capi d’accusa che secondo il procuratore di Manhattan (un “dem” che il tycoon ha naturalmente ricoperto d’insulti e di minacce esplicite) dovrebbero inchiodare l’imputato, non ci sono tanto i 130.000 dollari consegnati da un suo legale alla pornostar Stormy Daniels (nome simpaticamente mutuato da una nota marca di whisky) e contabilizzati illegalmente come spese elettorali, ma c’è la “cospirazione illegale” contro la correttezza delle elezioni del 2016, avendo egli usato quella somma per tacitare la pin-up, che comunque li accettò volentieri, ma soprattutto l’imputazione di “cospirazione” per aver “eliminato informazioni potenzialmente dannose” per la sua corsa elettorale, falsando dunque il dibattito.

Funzionerà? Molti ne dubitano, e dunque il vittimismo continuerà ad essere il leit motiv del “Don” e delle sue focose ‘truppe cammellate’ fino all’appuntamento del 2024. Per non pochi giuristi l’impianto dell’accusa è troppo debole, e per avere qualcosa di più sostanzioso bisognerà attendere la conclusione di una delle altre 4 inchieste ancora aperte sull’ex presidente: quella di aver esplicitamente chiesto due anni che in Georgia il governatore repubblicano e la giustizia locale spostassero un numero sufficiente di schede (alcune migliaia) per assicurargli la fraudolenta conquista di uno “Stato chiave” nella serrata competizione poi vinta da “sleepy Joe”.

Mr. Smith va a Washington

L’incriminazione di oggi è obiettivamente altra cosa, decisamente meno grave. Può portare a una condanna, ma difficilmente di gran peso, e comunque difficilmente ne uscirà un verdetto di detenzione. Alan Dershovitz, uno dei più noti penalisti del mondo, che assistette Trump in uno degli infruttuosi procedimenti di impeachment, ma che dichiaratamente vota per i Democratici e fra i suoi clienti ha avuto anche Nelson Mandela e Julian Assange, dichiara di non aver mai visto in 60 anni di carriera “un caso più debole”, e aggiunge di temere la “politicizzazione della giustizia” negli Stati Uniti. Sulla prima affermazione può avere ragione. Ma sulla seconda assai meno. La politicizzazione di una parte della magistratura attraversa e scava ormai da anni la cronaca americana. Una tela con molti strappi e tante vistose macchie. Chi si commuoverebbe ancora assistendo oggi a un film virtuoso e idealista come “Mr. Smith va a Washington”? Negli Stati Uniti esasperati da radicali contrapposizioni, quel James Stewart che interpretava l’integro personaggio della provincia che arrivava nella capitale corrotta sembra definitivamente appartenere a un’altra epoca. A un’altra America.






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