5 marzo 1953, muore Stalin
A settant’anni dalla morte del dittatore sovietico
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Il 28 febbraio del 1953 Vojd (la guida) invita a cena nella sua dacia alcuni alcuni suoi fedelissimi ( Bulgarin, Malenkov, Kruscev e il famigerato Berija capo del Nkvd, la polizia politica). Le testimonianze di quei giorni sono molto confuse: secondo la versione ufficiale Stalin subì un attacco cerebrale e si spense il 5 marzo. Sua figlia Svetlana affermò che il padre era convinto di esser vittima di una congiura (per avvelenamento) ordita proprio dai suoi ospiti. Il nome di Berija ricorre frequentemente anche se diversi storici tendono a non dare molto credito all’ipotesi di un complotto. Sta di fatto che quando i russi appresero dalla Pravda che « il cuore del compagno Stalin ha cessato di battere alle 21.50 del 5 marzo » l’ondata di cordoglio fu vasta e reale. Anche se in quegli anni le deportazioni nei Gulag avevano subito una forte accelerazione raggiungendo punte mai viste, Stalin beneficiò agli occhi dei suoi concittadini dell’immagine dell’uomo che aveva condotto vittoriosamente la « grande guerra patriottica » , momento cardine nella storia del paese sul quale fa ancor leva oggi Vladimir Putin nella sua retorica bellicistica. Il 6 marzo, il segretario del Pci Palmiro Togliatti si rivolse alla Camera dei Deputati per annunciare « la scomparsa dell’uomo che più di tutti gli altri ho venerato e amato ». La Seconda guerra mondiale aveva indubbiamente fatto dimenticare le grandi purghe che avevano decimato i vertici del Pcus e la politica del terrore che aveva lasciato una scia di milioni di morti.
Robert Conquest, storico britannico di scuola marxista, autore di un biografia di riferimento (« Stalin: Breaker of Nations ») individua in tre elementi le ragioni della rapida ascesa di Stalin ai vertici del potere: le sue grandi conoscenze teoriche, il sostegno da parte dei nuovi esponenti del partito bolscevico e infine la politica sistematica del terrore nei confronti dei suoi avversari. Segretario del Pcus dal 1922 (data di nascita dell’Urss) fino alla sua morte, Stalin nato nel 1878 a Gori in Georgia, era di famiglia povera con un padre alcolizzato e la madre donna pia. Frequenta il seminario, senza mai voler abbracciare il sacerdozio e presto, racconta lo storico Simon Montefiore (« Stalin. The court of the red star ») appare il suo carattere brutale quando partecipa al sanguinoso assalto della banca di Stato a Tbilisi in cui periscono una quarantina di persone. In esilio in Finlandia, a Londra e nell’Impero tedesco (dove incontra Lenin) aderisce a Cracovia al Partito operaio socialdemocratico russo, antenato del Partito bolscevico che a sua volta darà nascita al Pcus. Paradossalmente l’uomo a cui è associato l’accentramento estremo del potere è agli inizi fautore d’un certa decentralizzazione : in « Il marxismo e questione nazionale » (1913) sostiene che il marxismo debba concertarsi non solo sulle classi sociali ma pure sulla questione delle nazionalità. Lenin in effetti lo nominerà all’indomani della Rivoluzione d’Ottobre « commissario del popolo alle nazionalità ». Vicino a Dzeržinskij, capo della Ćeka (la polizia politica, divenuta poi Gpu, Nkvd, Kgb e oggi Fsb) elimina man mano tutti i suoi avversari. Fallisce nella guerra contro la Polonia nel 1920 (ne attribuirà poi la responsabilità a Tukhachevsky, uno dei migliori generali dell’Armata Rossa, che farà poi fucilare nel 1937), rimane abilmente al centro del potere, cancella le autonomie locali, promuove i suoi fedelissimi, si scontra con Trockij , commissario del popolo agli esteri e poi comandante dell’Armata Rossa. Lenin, ormai molto malato, si inquieta per « il peso troppo eccessivo nelle mani di Stalin « un uomo « grossolano ». La moglie di Lenin lo odia, non lo vuole al potere. « Trockij » – scrive Lenin nel suo testamento – « è il più capace ma anche troppo sicuro di sé ». Lenin muore nel gennaio del 1924, il capo dell’Armata Rossa viene allontanato, e il potere è ormai nelle mani di un triumvirato: accanto a Stalin, Kamenev e Zinovev rappresentanti della corrente di sinistra che verranno poi fucilati più tardi nelle purghe: la stessa fine faranno poi Bucharin e gli esponenti più moderati. In quanto al grande nemico Trockij, ci penserà un sicario di Stalin ad assassinarlo in Messico nel 1940. Intanto con la sua cerchia di infeudati, Stalin costruisce il proprio culto della personalità: il Congresso del partito si riunisce ormai solo saltuariamente, non conta più nulla. Il potere è gestito dal Politburo.
Prima della scoppio della seconda guerra mondiale Stalin si rese artefice di massacri di massa di dimensioni inaudite: l’Urss fu l’unica potenza europea a mettere in atto tra le due guerre una politica di sterminio, ricorda in « Terre di sangue » lo storico americano Timoty Snyder. L’Holodomor, la carestia nella quale perirono almeno 4 milioni di ucraini, fu in gran parte – ci spiega Nicolas Werth uno dei maggiori studiosi di quell’epoca – risultato di una politica punitiva per piegare la resistenza al collettivismo ma anche per sedare le rivendicazioni nazionalistiche. Un trauma enorme che spiegherà più tardi l’accoglienza positiva che molti ucraini riserveranno ai nazisti i quali non tardarono poi a mettere in atto a loro volta spaventose carneficine. Stalin appare poco in pubblico, teme la folla, i contadini (80% della popolazione) non amano la collettivizzazione, è ossessionato dalle minacce interne e esterne. Nel 1937-38 fa fucilare quasi 800mila persone, in media 1600 al giorno: kulaki (proprietari terrieri), operai, casalinghe, funzionari, intellettuali, impiegati, ferrovieri, librai, barboni, persone qualunque che avevano il difetto di essere d’origine tedesca, polacca, coreana, giapponese. Dei non russi insomma. Organizzato con il capo del Nkvd Niklolaj Ežov (poi a sua volta fatto fucilare) il « Grande Terrore » comportò anche la deportazioni di milioni di persone molte delle quali non fecero più ritorno dai Gulag. Più tardi, nel dopoguerra, furono gli ebrei a essere a loro volta vittime del terrore staliniano. Nel 1950, spiega ancora Nicolas Werth, un sovietico su 6 era stato deportato.
« Psicopatico » a detta di Kruscev, Stalin aveva comunque qualche ragione per temere un attacco tedesco. Anche perché con le purghe aveva eliminato i vertici dell’Armata Rossa e oltretutto gli accordi di Monaco le potenze occidentali avevano dato il via libera a Hitler per smembrare la Cecoslovacchia. Sta di fatto che quando nell’agosto del ’39 il ministro degli esteri tedesco Ribbentrop sottoscrive a Mosca (dove viene accolto con tanto di bandiere con la svastica!) l’accordo di non aggressione con il suo omologo Molotov, i vertici dei partiti comunisti europei sono disorientati. E ancora non sanno dei protocolli segreti che danno a Stalin 400mila chilometri quadrati di terre, l’est della Polonia, gli Stati baltici e la Bessarabia (Moldavia). Il patto, con il quale Hitler ottenne disco verde per attaccare la Polonia, garantì la pace coi nazisti fino all’operazione Barbarossa lanciata il 21 giugno del 1941. Dopo una serie di rovesci che consentirono ai tedeschi di avanzare, Stalin ebbe l’intelligenza strategica di affidare la conduzione della guerra ai marescialli più capaci, tra cui Žhukov che inflisse alla VI armata tedesca del generale Paulus una disfatta decisiva per le sorti di tutta la guerra. Fu proprio l’immagine dell’uomo che sconfisse i nazisti sul fronte orientale, giungendo poi fino a Berlino, a consegnare a Stalin quell’aura di prestigio di cui ancor oggi gode tra parte della popolazione russa.
Il « piccolo padre dei popoli » beneficiò a lungo dell’indulgenza di molti intellettuali occidentali. Mentre a Mosca già nel 1934 il grande poeta Ossip Mandelstam (poi deportato) scriveva del « montanaro carnefice con i baffi di scarafaggio », mentre Anna Akhmatova piangeva il figlio Lev deportato in un gulag, a Parigi, capitale culturale d’Europa, gli intellettuali – con poche eccezioni- esternavano una sconvolgente indulgenza. Paul Eluard, poeta surrealista compose un’ode a Stalin « che rappresenta sulla terra le speranze infinite degli uomini ». Altrettanto patetico Luis Aragon che nel necrologio celebrò l’uomo di pace. Il coltissimo Jean-Paul Sartre non diede il meglio di sé quando al rientro da Mosca spiegò che in realtà se i sovietici non escono dal loro paese è « perché non ne hanno voglia » e che il cittadino sovietico « possiede tutta la libertà di critica ». Pablo Neruda inneggiò a Stalin « un faro per le colombe ». Ci penseranno pochi altri, tra cui lo scrittore André Gide dopo il suo viaggio in Urss, a passare dall’entusiasmo militante all’orrore. Oggi ovviamente le ricerche storiche non consentono più attenuanti nel giudizio politico e morale sul sanguinario georgiano, protagonista con Hitler del secolo dei totalitarismi.
Articolo scritto per laRegione
Nell’immagine: statua in bronzo di Stalin in un “cimitero” di monumenti dell’era sovietica nei dintorni di Tallinn (Estonia)
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