I Giochi (quasi) proibiti della città proibita
Olimpiadi in Cina da venerdì: più restrizioni per i giornalisti di tutto il mondo; e non è solo una questione di Covid
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Olimpiadi in Cina da venerdì: più restrizioni per i giornalisti di tutto il mondo; e non è solo una questione di Covid
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Olimpiadi in Cina da venerdì: più restrizioni per i giornalisti di tutto il mondo; e non è solo una questione di Covid
Quando nel 2008 mi recai in Cina per una serie di servizi televisivi in vista delle Olimpiadi estive, c’era un senso di “apertura” verso il mondo. Ottenere un visto giornalistico fu insolitamente facile. Filmare a Pechino e dintorni anche. Almeno all’apparenza, i giornalisti stranieri erano benvenuti, come mai prima di allora.
Le preoccupazioni attorno alle violazioni dei diritti umani erano grandi e l’appello a boicottare i giochi, per non dare legittimità al governo di Pechino, erano altrettanto forti. Allora, sotto la lente non c’era il maltrattamento della minoranza musulmana degli Uiguri, come è il caso oggi, ma l’oppressione cinese in Tibet.
Per difendersi dalle critiche di aver scelto Pechino come paese ospitante nel 2001, il Comitato olimpico disse che l’evento offriva alla Cina l’opportunità di incamminarsi sulla strada del cambiamento anche in ambito di diritti umani. Concedere più libertà ai giornalisti in quelle settimane era quindi un esercizio necessario, seppur non facile per un Paese abituato a controllare tutto e il cui vero obiettivo era di mettere in vetrina la sua accresciuta potenza.
Ricordo che la polizia non ci fermò quando intervistammo gli operai che avevano costruito le moderne infrastrutture olimpiche in condizioni difficili, per poi vedersi cacciare dalle città alla vigilia dei giochi, un tema che fece molto discutere. Il clima era diverso in periferia, anche se fu possibile andarci senza i permessi speciali, necessari negli anni precedenti. Le autorità ci arrestarono quando intervistammo gli abitanti di una delle cosiddette città del cancro, ossia cittadine così inquinate, che un alto numero di residenti era malato di cancro o deceduto in circostanze misteriose. Le forze dell’ordine ci interrogarono per diverse ore, prima di scortarci fuori dalla città.
Il governo sperava che l’attenzione dei giornalisti stranieri restasse sui grandi simboli di progresso e ottimismo, come lo stadio soprannominato nido d’uccello, The bird’s nest, progettato dagli architetti svizzeri Herzog e De Meuron. Il 4 febbraio quello stesso luogo ospiterà la cerimonia di apertura come avvenne nel 2008, ma le speranze e le aspettative sono diverse.
La Cina non è più la stessa, la leadership e le priorità del partito comunista non sono cambiate, e l’inarrestabile crescita economica ha portato il Paese ad essere sicuro di sé, tanto che Pechino non sembra particolarmente preoccupato del boicottaggio diplomatico di alcuni governi stranieri e non ha nessun desiderio di srotolare il tappeto rosso ai giornalisti.
Il comitato olimpico dice di non voler interferire con la politica e questo in un momento in cui è già sotto pressione per non aver fatto abbastanza per proteggere la tennista cinese Peng Shuai, il cui destino rimane incerto.
La pandemia e la strategia zero-covid della Cina rendono i giochi difficili, la logistica complicata, ma offrono l’occasione per imporre nuovi controlli in nome della sicurezza sanitaria. Ci sono i media dentro la cosiddetta bolla Covid, i giornalisti potranno spostarsi soltanto tra gli stadi e l’albergo, rispettando rigide restrizioni, e ci sono quelli che invece hanno deciso di non accreditarsi per coprire gli eventi sportivi dall’interno, ma lavoreranno dall’esterno, concentrandosi su ciò che succede attorno alle olimpiadi.
Alcuni dei corrispondenti stranieri potranno assistere alla cerimonia di apertura, ma solo se avranno ricevuto tre dosi di vaccino e un test PCR negativo. Rimangono piuttosto vaghe, per ora, le informazioni sull’organizzazione della serata, sull’orario, sul protocollo per i cronisti. Alcuni media internazionali sono invitati a specifiche conferenze stampa, ma non ad altre. Non si può davvero scegliere dove andare e quando. Chi è fuori dalla bolla è stato autorizzato a partecipare alle prove di alcune gare sportive, ma non ha potuto né filmare, né fare interviste. Accesso e libertà di movimento sono quindi limitati. In questi giorni sembra particolarmente difficile, se non impossibile, filmare le migliaia di residenti della capitale cinese, incolonnati fuori dalle loro abitazioni per sottoporsi al tampone, e sono stati individuati dei focolai.
Gli atleti potrebbero venire multati se dovessero agire in un modo che nuoce allo spirito sportivo, facendo dei commenti su questioni politiche. Fuori dalla Cina, gli sponsor sono piuttosto silenziosi sui sociali media, forse imbarazzati per non aver voluto rinunciare ai milioni che generano le olimpiadi. Per molti osservatori questo è il punto cruciale: solo se i grandi promotori, i colossi televisivi e gli atleti boicotteranno i giochi, ci saranno delle vere conseguenze. Non basta che un paio di governi rinuncino a mandare i loro ministri alla cerimonia di apertura.
Quando si accenderanno i riflettori dentro lo stadio degli architetti svizzeri, ci si concentrerà sullo spettacolo, che difficilmente deluderà. I giornalisti dentro la bolla olimpica si preoccuperanno delle medaglie, nella speranza di non risultare positivi al Covid e finire quindi in qualche struttura governativa. Quelli che opereranno al fuori del perimetro controllato, continueranno a descrivere le restrizioni imposte; si avrà la sensazione di una copertura mediatica a metà e di un boicottaggio a metà, ma la manifestazione sportiva continuerà come pianificato, fino al prossimo evento, che porrà di nuovo Pechino sotto la lente: tra l’ipocrisia e l’indignazione del mondo.
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