I giudici non sempre sono la Giustizia
Blando, dalla Treccani: Temperato, mite, dolce: il notturno zeffiro Blando sui flutti spira (Foscolo); una blanda punizione; maniere blande; fuoco blando, luce blanda; un purgante...
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Blando, dalla Treccani: Temperato, mite, dolce: il notturno zeffiro Blando sui flutti spira (Foscolo); una blanda punizione; maniere blande; fuoco blando, luce blanda; un purgante...
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Applicato a uno stupro: non ti ha uccisa!
Abbiamo per troppo tempo presunto che il linguaggio giudiziario, forse proprio perché specialistico, fosse orientato a stabilire la veridicità dei fatti; e ci siamo illusi che bastasse cambiare le leggi per garantire una giustizia più giusta.
Eppure proprio due recenti sentenze su reati di natura sessuale mostrano quanto profondamente pregiudizi e stereotipi plasmino i verdetti e rivelino la crudeltà giuridica ereditata dal patriarcato.
Queste sentenze ci fanno capire quanto sia necessario rivedere le rappresentazioni di chi è chiamato a interrogare, condurre dibattimenti, confrontarsi con le vittime di reati ed emettere sentenze. In agosto quella della Corte d’appello di Basilea, che ha ridotto la pena allo stupratore perché la vittima “ha giocato con il fuoco”. Recentemente quella di Soletta, che definisce “blando” uno stupro in quanto commesso “con la minima violenza necessaria”.
Verdetti del genere denotano stratificazioni di pregiudizi che anche gli uomini e le donne dentro ai tribunali continuano a riprodurre. La vittima, secondo loro, dovrebbe sempre essere una sorta di angelo asessuato, che non indossa nulla che potrebbe attirare lo sguardo, non beve, non flirta, non segue un uomo in albergo, è guardinga e si difende con i denti. Modello Santa Maria Goretti, per intenderci.
L’autore, invece, se non usa troppa violenza, non è poi così colpevole. Suvvìa, avrebbe potuto massacrarla come hanno fatto le bestie del Circeo (di cui proprio quest’anno si è nuovamente parlato in occasione dell’uscita di un film, a 46 anni dai tragici fatti). Noi donne non vogliamo più restare in silenzio, non accettiamo più di essere vittimizzate ulteriormente quando chiediamo giustizia. Perché il tragico risultato è che spesso chi subisce violenza non denuncia, non si fida delle istituzioni, non sente di essere creduta e ha paura di essere giudicata.
Ma nulla è immutabile e anche i linguaggi della giustizia possono essere rivisti. È l’intento – ad esempio – del Progetto Step, dell’Università della Tuscia (Viterbo), che vuole produrre un “cambiamento culturale nella rappresentazione di genere in ambito giudiziario, nelle forze dell’ordine e nel racconto dei media”. Un progetto presentato lo scorso 7 maggio dalla docente ordinaria di sociologia Flaminia Saccà, responsabile di progetto, nel corso del ciclo “Nomen omen, la verità delle parole” promosso dalla rete nateil14giugno.
In seguito a questo progetto è stata inviata al Consiglio di Stato ticinese la proposta di analizzare le sentenze emesse da tribunali di vario grado – anche a livello nazionale – per capire se (ma su questo punto ormai non sembrano esserci più tanti dubbi) e soprattutto come agiscono pregiudizi e stereotipi in ambito giudiziario. Il presidente del Governo Bertoli ha dato seguito alla richiesta, e recentemente è stata avviata una collaborazione con l’Istituto di diritto dell’Università della Svizzera italiana. I risultati non saranno per domani, ma potranno certamente contribuire, come è stato il caso per la ricerca promossa in Italia, alla necessaria eliminazione di pregiudizi e stereotipi sessisti dalla pratica giudiziaria.
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