Un calcio ai paradossi
La fantastica cavalcata della nazionale di calcio potrebbe anche rispondere a qualche annosa serie di questioni extra-sportive
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La fantastica cavalcata della nazionale di calcio potrebbe anche rispondere a qualche annosa serie di questioni extra-sportive
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La fantastica cavalcata della nazionale di calcio potrebbe anche rispondere a qualche annosa serie di questioni extra-sportive
Come non essere felici ed entusiasti, da sportivi più o meno appassionati di calcio, dopo la magica serata che ha portato alla qualificazione diretta ai mondiali della nostra nazionale, per di più a danno dei campioni europei dell’Italia.
Giornali, siti online, radio e televisioni, è tutto un tripudio per un risultato sportivo ottenuto con tanto merito ed un po’ di fortuna (che serve sempre) da parte di una squadra che ha saputo fare l’unanimità per qualità, solidarietà, impegno e compattezza.
La Svizzera sportiva, ma non solo, festeggia a giusta ragione, come raramente è avvenuto, quella che viene definita “un’impresa”: in Ticino, probabilmente, ci si aggiunge anche un po’ di storico sciovinismo anti-italiano, nell’inneggiare alla vittoria della nostra “modesta” compagine contro gli azzurri da passerella, “sperlusenti di moda” (vedi Giorgio Genetelli, in “L’Eco dello sport”, 16.11.21).
Del resto, su un generico (e ancora radicato) anti-italianismo nostrano ha ampiamente giocato la prima puntata del programma radiofonico della nuova Rete Uno, “Controcorrente”, dando libero sfogo a quel che da noi riesce meglio: l’essere “contro”.
E così, “essere contro” diventa ben presto, in non pochi casi, anche quello di non gradire una nostra nazionale tanto farcita di “negretti e balcanici” (si cita qui da una telefonata diffusa la scorsa settimana nel programma menzionato). È la forza dello sport, che sa amplificare sentimenti e reazioni, che siano di gioia oppure di frustrazione. Insomma, secondo un abusato modo di dire, da sportivi tifosi si è “capaci del meglio come del peggio”.
Cercando di non farsi ubriacare o accecare né in un senso né nell’altro, meriterebbe invece attenzione proprio la composizione cosmopolita della nostra nazionale calcistica: in maglia rossocrociata, a difendere i colori della Svizzera e ad entusiasmare il paese intero, ci sono nigeriani, turchi, portoghesi, francesi, congolesi, cileni, senegalesi, sudanesi, kosovari, croati, bosniaci e dominicani, un fantastico mix culturale accolto nel nostro paese in virtù, prima che dei meriti sportivi, da una politica di integrazione che c’è chi continua a voler contestare.
Ecco dunque che l’”impresa” di questa squadra potrebbe portare con sé anche una debita riflessione su quanto e come una tale commistione etnico-culturale possa pure produrre, nello sport ma non solo, benèfici aspetti se, a far da collante o contenitore, vi è una disponibilità all’apertura e all’accoglienza. Da questo punto di vista non si finirà mai di ripetere che la nazionale svizzera di calcio non è (ancora) propriamente lo specchio di un paese che, in realtà, si dibatte non poco (e ancora) in discussioni infinite di tipo populistico, fondate sostanzialmente su Insicurezze e paure di ogni tipo, specie se hanno a che fare con paventate minacce che vengono “da fuori”.
La multiculturale e multicolore nazionale svizzera, pare così quasi un paradosso: diretta fino a pochi mesi fa da un bosniaco di origine croata che dopo anni passati in Ticino a giocare e lavorare per la Caritas, è diventato il “mister” di tutti, e ora portata al successo da un turco cui nessuno dava particolare credito, potrebbe insomma costituire anche un incoraggiante esempio di come con un ritrovato senso di fiducia, anche le sorti non solo sportive del nostro paese potrebbero ottenere maggior successo.
Un senso di fiducia che potrebbe per esempio essere d’aiuto proprio in questo periodo al nostro ministro degli esteri per arrivare una volta o l’altra ad un accordo con l’UE, dentro il continuo estenuante equilibrismo cui lo costringono le pressioni di Bruxelles e quelle dei corridoi di Palazzo Federale.
Ma c’è ancora un altro aspetto che potrebbe nascondersi dietro o dentro il successo della Nati e che potrebbe apparire, a prima vista, paradossale. Considerando la composizione dello staff dirigenziale e tecnico, si scopre un dato davvero particolare: accanto al prode Murat, stanno (ed erano tutti lì, a Lucerna, seduti vicino a lui in panchina) un responsabile tecnico delle squadre nazionali che si chiama Tami, un preparatore dei portieri che si chiama Foletti, un analista tattico che si chiama Gerosa, un vice-allenatore che si chiama Cavin (da una vita trapiantato in Ticino), un allenatore dell’Under 23 che si chiama Lustrinelli.
Insomma, una notevole e qualificata schiera di professionisti ticinesi che in virtù delle loro competenze sono stati voluti e promossi a referenti essenziali dalla Federazione per lo sviluppo del progetto calcio a livello nazionale. La nostra piccola provincia sa dunque offrire competenze e qualità a livello nazionale. L’impresa calcistica che si è compiuta a Lucerna, deve molto anche a questo staff, a questi professionisti capaci di affermarsi con idee e proposte che hanno saputo fare, calcisticamente parlando, della Svizzera una squadra “con schemi chiari e propensione offensiva”. Una squadra che gioca per vincere e crede in sé, anche quando schiera le riserve.
Che bello constatare che questi valori sportivi sono stati anche frutto del lavoro di cervelli ticinesi per niente in fuga, ma capaci, nel giusto contesto e con adeguati riconoscimenti, di affermare le proprie idee, senza paure, senza lamentazioni, e di contribuire in modo decisivo al successo.
E che bello augurarsi che questo possa accadere, un giorno, chissà, non solo su un terreno calcistico.
Una replica di Manuele Bertoli, Direttore del Dipartimento Educazione, Cultura e Sport
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