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Redazione
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• 19 Novembre 2021 – Redazione
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Di Timo Kollbrunner, Public Eye

Con un gigantesco catalogo di articoli scandalosamente a buon mercato e grazie ad una presenza efficace ed aggressiva sui canali social, il marchio di abbigliamento online Shein, toglie la terra da sotto i piedi a giganti quali H&M, Zara e compagnia bella, attirandosi le simpatie (ed i soldi) soprattutto di una clientela giovane e femminile. Ma se l’insegna Shein brilla sempre più nella cura della propria immagine, non riesce certamente a celare l’opacità che la contraddistingue dietro le quinte, lontano dalle luci della ribalta internazionale, nelle viuzze della grande città di Guangzhou (già Canton), dove migliaia di operai lavorano ogni giorni per 12 ore a tagliare e cucire i capi d’abbigliamento tanto desiderati dagli adolescenti.

Certo, la campagna pubblicitaria di Shein appare decisamente vincente. Punta su testimonial emergenti e provenienti da regioni diverse: si pensi al cantante latinoamericano Willie Gomez, o alla bassista e cantante nordamericana Blu DeTiger, che in un video diffuso da Youtube si esibiscono in uno show tutto luci ed effetti coreografici, con ballerine e ballerini multietnici ad esibirsi rigorosamente vestiti Shein.

Tutto trendy, non c’è da dubitarne, per di più destinato ai pubblici più diversi, come cultura ma anche come taglia (abbondano, per esempio, le modelle “curvy”): tutto buono per clic e like e séguiti strepitosi sui social.

Il sito web della casa cinese offre oggi circa 260 mila articoli solo di abbigliamento femminile e propone quotidianamente 6753 novità, che costano, in media, intorno ai 20 franchi. Davvero pochissimo, in confronto ad altri venditori al dettaglio online. E infatti Shein, ad inizio ottobre, poteva contare su 22 milioni di clienti via Instagram, 23 milioni via Facebook e 2,8 milioni su Tik Tok.

I “Shein hauls” (insomma i bottini di Shein) sono diventati una specie di disciplina artistica da social. Giovani e giovanissimi (specie giovanissime) si filmano mentre sballano il pacchetto appena ricevuto, descrivono e provano i capi, e raccontano le loro emozioni nell’indossarli. E così, in poco tempo, l’hashtag #sheinhaul ha raggiunto 3,7 miliardi di visualizzazioni! Shein non ha mai comunicato la propria cifra d’affari. Secondo un rapporto cinese del dicembre 2020 la società avrebbe guadagnato circa 10 miliardi di dollari, con la previsione di arrivare ai 20 miliardi entro la fine di quest’anno. Sul proprio sito si presenta come “società internazionale di commercio elettronico in modalità B2C, ovvero “business to consumer” ed afferma di rivolgersi principalmente ai mercati europeo, americano, australiano e mediorientale. Nessuna menzione del luogo da dove vengono inviati i capi d’abbigliamento verso questi mercati: nel sito svizzero l’unico indirizzo che figura è quello di Zoetop Business, di Hong Kong.

Solo attraverso una minuziosa analisi comparata di tutti i siti che fanno capo a Shein si riescono a rinvenire alcune ulteriori informazioni sulla storia e l’attività della società, che parrebbe fondata nel 2008 a Nanjing, nella Cina orientale, per poi trasferirsi, dopo il lancio della propria produzione su vasta scala, nella città di Guangzhou (16 milioni di abitanti), dove ha installato il proprio quartier generale e dove si appoggia su numerossissimi “fornitori”.

Ogni fornitore è collegato in rete con il sistema adottato da Shein e può ricevere, in ogni momento ed in tempo reale, le ordinazioni, anche quelle più “personalizzate”. Si è calcolato che se per Zara, ad esempio, la “moda effimera” (capi che nascono e muoiono in poco tempo) comporta un ciclo di produzione che va dalle tre alle quattro settimane, Shein arriva a produrre uno specifico modello in meno di una settimana, dal design all’imballaggio.

Se dunque i consumatori (e soprattutto le giovani consumatrici) vengono accontentati in tempo record, ben poco si sa di come tutto questo sia reso possibile. Insomma, come funziona la “macchina Shein”.

Così, alla fine dello scorso anno “Public Eye” ha provato ad indagare per saperne un po’ di più. Con l’aiuto di un’organizzazione impegnata nella difesa dei diritti di lavoratrici e lavoratori del sud della Cina (e di cui non si farà il nome per ragioni di sicurezza) due collaboratrici hanno cominciato ad indagare, mettendosi sulle tracce di alcuni fornitori di Shein basati, appunto, a Guangzhou.

Dopo qualche settimana dall’inizio dell’inchiesta si è così giunti ad individuare 17 imprese che producono al dettaglio, riuscendo ad entrare in contatto con tre donne e sette uomini che lavorano in fabbriche differenti con diverse mansioni: alla cucitrice, al controllo qualità, all’imballagio, alla stiratura, al taglio. In tutti i casi si tratta di persone arrivate a Guangzhou da altre province, da poco tempo ma con una notevole esperienza precedentemente acquisita.

La nostra inchiesta viene portata avanti da una “informatrice” che non vedremo mai, neanche nelle furtive comunicazioni video di aggiornamento concordate. Troppo pericoloso mostrarsi.

Nelle immagini, per contro, vediamo alcuni dettagli delle fabbriche, grazie a fotografie scattate di nascosto con il cellulare.

Sono immagini che mostrano chiaramente le condizioni in cui si lavora in queste fabbriche, disseminate lungo le viuzze di un intero quartiere, chiamato infatti il “Quartiere Shein”. Scarsa vivibilità, assenza di “uscite di sicurezza” (ogni ingresso è bloccato da mucchi di sacchi di vestiti o di rotoli di stoffa) perché la produzione deve essere incessante, per arrivare, come si legge in un manifesto appeso ad una parete di un capannone, a realizzare 1,2 milioni di vestiti al mese.

Certo, lo scorso settembre Shein ha pubblicato, per la prima volta, sul suo sito internet negli Stati Uniti, un codice di comportamento per i suoi fornitori, chiedendo che vengano garantite “condizioni di lavoro sicure, igieniche e sane”. Ma dalla documentazione inviataci dalla nostra informatrice sembrerebbe ci sia ancora molto da fare.

Dai rapporti scritti inviatici dalla stessa informatrice dopo diversi colloqui con lavoratrici e lavoratori, scopriamo poi un dato molto importante relativo alle ore di lavoro: in fabbrica, infatti, ognuno fa quotidianamente tre turni: dalle 08.00 alle 12.00, dalle 13.30 alle 17.45 e dalle 19.00 alle 22.30. Per un solo giorno alla settimana è concessa la serata libera; un solo giorno al mese il possibile congedo.

Si tratta di orari assolutamente fuori norma anche rispetto ai diritti del lavoro in Cina, dove la settimana lavorativa dovrebbe essere di 40 ore con un massimo di 36 ore supplementari al mese e almeno un giorno libero alla settimana. Stando alla nostra informatrice la situazione è comunque quella di numerose aziende tessili cinesi. Del resto, la manodopera proviene da province povere, si trasferisce per un tempo limitato al quartiere-villaggio in condizioni di precariato assoluto, ma sempre guadagnando di più che non nei villaggi di provenienza.

Su questa base di “migrant workers” si fondano gran parte delle fortune degli ateliers di Shein.

Il salario, naturalmente, è stabilito secondo la produttività degli operai e delle operaie. Le tariffe sono “al pezzo”, più si lavora più si guadagna, meglio ancora se si arriva a lavorare per due, per uno stipendio che può arrivare fino ai 10 mila yuan (circa 1400 franchi). Naturalmente non esistono contratti scritti, né convenzioni collettive di lavoro. Le promesse “ispezioni” per verificare le condizioni delle fabbriche e degli operai non si sono mai avverate.

A chi lavora nelle fabbriche che riforniscono Shein è richiesta dunque totale dedizione al lavoro, una presenza costante, un’ampia flessibilità e disponibilità ad adattarsi alle ordinazioni più diverse in tempi molto rapidi. Infatti, ad ogni fabbrica vengono ordinati quantitativi relativamente piccoli di uno specifico modello, ma per contro, numerosi modelli diversi, che in pochissimo tempo le lavoratrici ed i lavoratori devono saper realizzare.

Sono questi solo alcuni degli aspetti emersi dall’inchiesta condotta da “Public Eye” per capire cosa stia all’origine di un successo planetario come quello del marchio Shein; un successo che pare destinato ad aumentare e a far diventare Shein uno dei colossi mondiali della vendita online di capi d’abbigliamento, di un mercato rivolto a consumatori giovanissimi pronti a diventare influencer e testimonial.

Facilissimo entrare nel sito, vedere quanto poco costano magliette, gonne, cappotti, jeans e accessori vari, e via con l’ordinazione. Forse varrebbe però la pena anche provare, qualche volta, in qualche momento di riflessione, a pensare a come sia possibile che questo avvenga e che nella bucalettere si trovi, in poco tempo, giunto da chissà dove, un pacchetto con cellophane e polistirolo dentro cui appare una camicetta tanto carina, tanto trendy e tanto a buon mercato, pronta per essere mostrata su “Tik Tok”.

Traduzione e adattamento di Enrico Lombardi
Immagini: Panos Pictures 






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