Il Congo stoppa la Glencore di Zugo
Svolta storica: la multinazionale svizzera non potrà più esportare importanti materie prime dal paese africano prima che siano lavorate nel paese
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Svolta storica: la multinazionale svizzera non potrà più esportare importanti materie prime dal paese africano prima che siano lavorate nel paese
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Svolta storica: la multinazionale svizzera non potrà più esportare importanti materie prime dal paese africano prima che siano lavorate nel paese
C’è stata una iniziativa “per imprese responsabili a tutela dell’essere umano e dell’ambiente” (proposta e sostenuta da uno degli ultimi intelligenti e politicamente sensibili e coerenti “radicali” ticinesi, Dick Marty) che, interpretata e applicata poi come suggeriva, ci permetteva di comportarci da umani e da responsabili, anche economicamente, con i paesi in cui quelle nostre imprese operano. Fu respinta da parlamento, poi nel relativo referendum approvata dal popolo ma bocciata dalla maggioranza dei cantoni… perché andava troppo in là.
Ecco (notizia data dalla RSI) che la ministra congolese per l’ambiente, Eve Bazaiba, annuncia a Glasgow, in un incontro con l’ambasciatore svizzero Franz Perrez, di non più permettere al gruppo Glencore – la società mineraria che ha sede nel canton Zugo e già al centro in quel Paese (e non solo) di denunce e procedimenti o per drammi umani-ambientali (aria e suolo) o per casi di corruzione – di esportare ancora materie prime, tra cui il cobalto, essenziale per i veicoli elettrici, ma anche il rame, senza che siano state prima lavorate nel paese.
Qui emerge quindi una responsabilità (un obbligo) economico-sociale: lo sfruttamento della ricchezza mineraria di un paese deve essere utile al paese, per crearvi reddito e occupazione, non solo come ricavato di una vendita di materia prima grezza, ma anche come plusvalore di un prodotto semilavorato sul posto. Esigenza umana, prima che economica, più che legittima. La quale fu ovviamente ignorata, come criterio politico fondamentale, da Consiglio federale e Parlamento, quando si discusse dell’iniziativa per imprese responsabili. O perché ritenuta un “fastidio che andava oltre” e questione più etica che politica (e quindi non pertinente, come si tende a distinguere) o perché ridotta ad affare commerciale, di libero mercato e di costi (e si arrangino loro).
In realtà perché la mentalità imperante in questo genere di negozi, al lucroso sfruttamento delle risorse grezze di un paese, semplicemente da esportare a basso prezzo, manipolandone poi il corso e lucrando sui grandi mercati, non vuole aggiungere una operazione che è ritenuta politicamente condizionante ed economicamente incerta, fors’anche ricattatoria, che è una lavorazione in loco.
È la classica politica colonialista dell’antisviluppo umano ed economico in un paese povero che ha la “sfortuna” di essere ricco di risorse e che diventa potenziale e temibile concorrente se acquisisce stabilità e sicurezza politiche, indipendenza economica, libertà e forza contrattuale. Ed è anche per non volere (se non addirittura fomentare) tutto questo, che la corruzione diventa allora per i negoziatori di materie prime, tutti operanti dai paesi ricchi, come la Svizzera, uno strumento “utile”, pressoché irrinunciabile. Di cui anche noi paghiamo però le conseguenze (vedi, domani, il secondo articolo, “La maledizione della ricchezza”).
Domani su Naufraghi/e la seconda parte della riflessione di Silvano Toppi: “La maledizione della ricchezza”, la miseria dell’Africa nonostante la ricchezza dei suoi giacimenti di materie prime
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