Il dollaro è come un drone
Grazie alla propria moneta, dominante nel mercato finanziario, a guadagnare dalla guerra in Ucraina, almeno per ora, sono gli Stati Uniti
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Grazie alla propria moneta, dominante nel mercato finanziario, a guadagnare dalla guerra in Ucraina, almeno per ora, sono gli Stati Uniti
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Grazie alla propria moneta, dominante nel mercato finanziario, a guadagnare dalla guerra in Ucraina, almeno per ora, sono gli Stati Uniti
Noi viviamo ancora con i postumi di una crisi, scaturita in buona parte dalla crisi dei sub-primes (in cui hanno lasciato le ossa e le stanno lasciando ancora le nostre grosse e ingorde banche). All’origine di quella crisi c’era una nazione il cui governo e le cui economie erano enormemente sovraindebitate. Gli Stati Uniti hanno però un privilegio esorbitante: lo affermava e dimostrava già dieci anni fa l’ormai classico e documentatissimo: Exorbitant Privilege. The Rise and Fall of the Dollar and the Future of International Monetary System, dell’economista americano Barry Eichengreen, uno dei maggiori specialisti nel campo che non prenderà mai un premio Nobel ( si trova tradotto con lo stesso titolo anche in francese da ed. Odile Jacob).
Esorbitante perché hanno la principale moneta del sistema monetario internazionale, ciò che conferisce loro numerosi privilegi, come vivere al di sopra dei propri mezzi, consumare più di quel che producono, indebitarsi facilmente a tassi anormalmente bassi e sempre nella propria moneta. Ma la tesi principale di quel libro (2011) era che gli Stati Uniti non stavano bene (economicamente, ma non solo), tuttavia la salute dei loro concorrenti non era migliore. E quindi il dollaro è e rimarrà ancora per lungo tempo la principale moneta internazionale, anche se dovrà maggiormente condividere quella posizione con lo yuan (cinese) e l’euro.
Oggi i mercati internazionali di materie prime, come quelle energetiche, sono quotati in dollari. Il dollaro rappresenta il 40 per cento del commercio mondiale, quattro volte il peso economico effettivo degli Stati Uniti. Più dell’85 per cento delle operazioni di cambio sono in dollari, così come il 50 per cento delle obbligazioni internazionali o il 60 per cento delle riserve monetarie delle Banche centrali. Tutti gli operatori internazionali sono soggetti al rischio di cambio ad eccezione degli americani. Le banche americane, ad esempio, prestano in dollari, ma sono egualmente rimborsate in dollari: è una sorta di briscola di non poco conto rispetto ai concorrenti internazionali.
Persino la devastante crisi dell’inizio di questo millennio (crisi dei subprimes), che ebbe inizio dall’irrazionalità e dall’avidità degli istituti finanziari americani, ha finito per rafforzare paradossalmente il ruolo del dollaro, scelto ancora e nonostante tutto come valore rifugio dagli operatori economici internazionali. E perché mai? Per almeno due motovi.
Dapprima per un altro paradossale privilegio, dice Eichengreen: si ricorrre al dollaro perché anche gli altri fanno la stessa cosa e perché prevale l’idea che basta cercare di stabilizzare la propria moneta nei confronti del dollaro affinché essa finisca per essere stabile anche nei confronti delle altre monete. Poi perché, altro piccolo paradosso, non è la salute assoluta dell’economia americana che determina la posizione o la forza del dollaro, ma è la sua salute relativa. In altre parole: se l’America va male, ma i suoi concorrenti non vanno meglio, c’è poco da temere per il dollaro.
Se si ammette che per affermarsi una moneta deve contare su un mercato finanziario liquido e sviluppato, ci potrebbe essere un solo concorrente potenziale per il dollaro: l’euro. La zona euro avrebbe vari assi nella manica per potercela fare, ma ha anche troppi punti deboli, come ad esempio: un’economia molto dipendente nel settore energetico; istituzioni piuttosto complicate nei processi decisionali come si è dimostrato in questi giorni e (last but not least) perché l’euro è una moneta senza Stato. Conclusione lapidaria: se ci dovesse essere un crac del dollaro, la causa andrebbe ricercata solo dalla parte delle politiche economiche americane.
La necessità di creare un’alternativa al dollaro è spesso sollevata, proprio per la strumentalizzazione politica che Washington fa della sua moneta, usandola come una sorta di arma o di drone sempre presente e quasi invisibile. Basterebbe pensare a tutte le multe inflitte dalla superpotenza alle imprese europee o svizzere (persino a quelle che vendevano medicinali o che intervenivano per scopi medici-umanitari) perché hanno osato fare degli affari, ovviamente nella moneta dominante, con paese sotto embargo americano (da Cuba, all’Iran, al Sudan e ora con la Russia e altre repubbliche vicine o, con altre restrizioni, con la Cina) oppure con le banche, molte sanzionate, che hanno ormai il terrore delle autorità americane per le ritorsioni che seguono (come è capitato ad alcune banche svizzere, anche grosse). Forse il fatto che è riuscito a suscitare qualche reazione generalizzata è stato il congelamento degli averi dell’Afganistan con la conquista del potere dei talebani nel 2021 (oltretutto per un fallimento politico e militare americano) e il loro uso parziale per indennizzare… le vittime degli attentati dell’11 settembre 2001 (torri gemelle).
Con la guerra in Ucraina il contraccolpo sui prezzi degli idrocarburi è stato micidiale per l’economia europea. È emersa un’ovvietà: gli Stati Uniti sono diventati un paese petrolifero esportatore (anche perché la produzione di petrolio e gas liquido dai scisti bituminosi, da fallimentare è diventata lucrosa con l’aumento dei prezzi).
Quando i prezzi dell’energia esplodono, gli Stati Uniti si arricchiscono sempre più, così come i membri dell’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio che, oltretutto, come l’Arabia Saudita (nonostante le suppliche di Biden), riduce l’offerta per arricchirsi meglio.
L’Europa e i Paesi asiatici (compresa la Cina), invece, ci rimettono e si impoveriscono. Ed anche questa diventa un drone, un’arma geopolitica. Ne hanno quindi approfittato il dollaro (che ha guadagnato più del 16 per cento sulle altre monete) con i petrodollari. Ma, paradossalmente, anche il rublo russo, che si è pure apprezzato nonostante le sanzioni (si può infatti vendere meno, magari costretti, guadagnando dieci volte di più).
Scommettere ora su un’inversione di tendenza del dollaro vuol dire, in buona parte, credere che la guerra in Ucraina terminerà e che l’enorme deficit commerciale creatosi in Europa a causa del forte rialzo dei prezzi dell’energia si riassorbirà. Per il momento sa di astrologia. Il dollaro continuerà quindi ad agire come amplificatore dell’inflazione nell’Unione europea e in Svizzera. Anche perché la Fed (la Banca centrale americana) finirà, con la sua politica monetaria del denaro più caro, per valorizzarlo ancora maggiormente.
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