Il genocidio russo dei bambini ucraini
Nella guerra ucraina prendere i figli dei nemici fa parte di una politica finalizzata alla distruzione di un popolo
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Nella guerra ucraina prendere i figli dei nemici fa parte di una politica finalizzata alla distruzione di un popolo
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Nella guerra ucraina prendere i figli dei nemici fa parte di una politica finalizzata alla distruzione di un popolo
Di Lucetta Scaraffia, La Stampa
«Estamos haciendo todo lo que está en nuestras manos para conseguir que cada familiar que reclame la vuelta de sus hijos, pueda lograrlo.(Stiamo facendo tutto ciò che è in nostro potere per garantire che ogni membro della famiglia che chiede il ritorno dei propri figli possa farlo)». Queste sono le testuali parole del Papa in una recentissima intervista rilasciata al settimanale spagnolo “Vida nueva”, a proposito dei suoi tentativi di pacificazione fra Ucraina e Russia, un’importante capitolo dei quali riguarderebbe per l’appunto la restituzione dei bambini rapiti da Mosca. Questa affermazione sta all’interno di un discorso più lungo, imperniato sul progetto di favorire la pace, sostiene il Papa, cercando di «raffreddare il conflitto».
Ma che cosa vuol dire raffreddare il conflitto? Certamente la frase del Papa dà a pensare: ci saranno forse famiglie che non richiederanno i propri figli, contente che i russi abbiano rapito i loro bambini? Del resto, chi si attendeva una frase di condanna del capo della Chiesa cattolica per questa pratica inumana non l’ha trovata. È lecito chiedersi: sarà davvero questa la via per raffreddare il conflitto?
Rubare i bambini fa parte di una politica finalizzata alla distruzione di un popolo, così come la deportazione di intere popolazioni ucraine residenti nelle zone del Donbass ora occupate dai russi, costrette a vivere in luoghi anche molto lontani dal loro paese. Si sa, la Russia è grande e anche in parte poco abitata, e da Lenin in avanti i russi hanno sempre praticato questa politica di deportazione: lo sanno bene i Tatari della Crimea, i Ceceni, gli Ingusci. Sono azioni crudeli che vanno molto al di là di già violente operazioni militari, azioni che piuttosto ricordano da vicino l’Holodomor, cioè la grande carestia che Stalin provocò per sterminare i contadini ucraini negli anni 30 del Novecento. Non ci dobbiamo stupire, dunque, che Zelensky in più di una occasione abbia parlato di “tentativo genocida” da parte di Mosca. Molti l’hanno accusato di esagerare, hanno detto che forse, essendo ebreo, egli era ossessionato dal ricordo dell’Olocausto. E certo, bisogna ammetterlo, parlare di genocidio non serve a raffreddare il conflitto in corso. Ma chiamare ciò che succede con il suo nome, con il nome che è giusto attribuire a questi eventi, come la nostra esperienza storica recente ci insegna, è un dovere e contribuisce in modo decisivo a capire cosa sta succedendo. A forza di “raffreddamenti” potremmo dimenticarlo.
L’importanza di dare il nome giusto a quello che succede, di non chiudere gli occhi di fronte ai fatti e alle parole prodotti dal conflitto, consapevoli dell’influenza concreta che essi possono esercitare nello svolgersi degli eventi, lo spiega con chiarezza un prezioso libro appena uscito dello storico tedesco Stefan Ihring “Giustificare il Genocidio. La Germania, gli Armeni e gli Ebrei da Bismarck a Hitler” (Guerini e associati).
Il genocidio armeno, perpetrato durante la prima guerra mondiale dai turchi, e sotto gli occhi dei tedeschi, loro alleati e presenti in forze nel paese, è stato in un certo senso un perfetto modello di quello che è sempre potenzialmente in agguato in un certo tipo di conflitti. Negato, oppure perfino giustificato da molti, denunciato da altri, ma in sostanza non impedito da nessuno, è stato il primo banco di prova della possibilità, nel civile mondo moderno, di cancellare quasi completamente un popolo che era suddito leale e da tempo radicato nell’impero ottomano solo perché diverso, cioè cristiano. Una delle cause principali che a suo tempo contribuirono a far sì che moltissimi non credessero possibile lo sterminio degli armeni – scrive Ihring – fu la diffusa e in certo senso naturale difficoltà a concepire tanta crudeltà. Non è possibile, pensarono in molti. Fu la stessa considerazione che indusse tanti a chiudere gli occhi davanti all’Olocausto. L’incredulità, osserva Ihring, «è una compagna costante del genocidio». In realtà, diversamente da come pensano molti, il genocidio armeno non fu affatto dimenticato: tanto è vero che ad esempio esso servì a rafforzare i propositi di Hitler nel programmare quello ebraico.
I genocidi si nutrono l’uno dell’altro, insomma, e questo, ahimé, distrugge le nostre illusioni sul potere salvifico della loro memoria. A dispetto di quanto viene continuamente detto nelle commemorazioni di rito, la memoria di queste tragedie storiche non serve mai a impedire che si ripetano: lo prova, tra mille altre prove, il silenzio dell’Occidente davanti al recente tentativo di distruggere il poco di Armenia rimasto nel Nagorno-Karabakh. Nel lungo e documentato saggio di Ihring colpisce una osservazione, infine: l’assenza di qualunque forte condanna religiosa e morale nei confronti dei turchi da parte della società tedesca, e in particolare l’assenza di una voce di forte opposizione da parte della Germania cristiana, convinse Hitler a partire con il progetto di cancellazione degli ebrei. Anche oggi, con la scusa del raffreddamento, quella voce tace.
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