Il Grande Freddo che incombe su Kiev
Segnali diffusi annunciano uno sbalzo nella temperatura della pubblica opinione in Europa e negli Stati Uniti, dove fino a poco tempo fa si professava il culto della democrazia
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Segnali diffusi annunciano uno sbalzo nella temperatura della pubblica opinione in Europa e negli Stati Uniti, dove fino a poco tempo fa si professava il culto della democrazia
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Segnali diffusi annunciano uno sbalzo nella temperatura della pubblica opinione in Europa e negli Stati Uniti, dove fino a poco tempo fa si professava il culto della democrazia
In anticipo sul clima meteorologico, che prolunga l’estate ben oltre i suoi confini, il clima politico ha fretta di archiviare la vecchia stagione e di inaugurare una nuova fase, senza vincoli, eredità e obbligazioni. Proprio in questi giorni stiamo assistendo ai segnali diffusi che annunciano uno sbalzo nella temperatura della pubblica opinione in Europa e negli Stati Uniti, dove fino a poco tempo fa si professava il culto della democrazia come valore assoluto e universale, destinato a imporsi ad ogni latitudine dopo aver vinto la sfida del Novecento con i totalitarismi. Oggi le nuvole dell’incertezza si accumulano in Occidente coprendo l’orizzonte, e si preparano a scaricare i loro fulmini sul teatro di guerra in Ucraina.
Nel sole ingannevole dell’ottobre 2023 siamo esattamente dentro questo cambio d’atmosfera nei nostri Paesi, preannuncio del Grande Freddo che verrà.
Prima che tutto cambi, nell’amnesia generale di comodo, è bene ricordare che non è soltanto per ragioni umanitarie e morali che l’Occidente si è schierato a fianco dell’Ucraina il giorno dopo l’aggressione russa e l’invasione del suo territorio. C’è stata infatti nell’Europa dell’Ovest la percezione immediata, quasi fisica, che la porzione di mondo in cui noi viviamo era indirettamente investita dal conflitto, perché tutti i valori, i principi e gli strumenti che tengono in piedi la nostra civiltà venivano attaccati e bombardati nell’assalto del Cremlino a Kiev. La coesistenza pacifica, gli organi di garanzia sovranazionali, i sistemi di regolazione dei conflitti, la coscienza del limite di ogni sovranità, il rispetto dell’autodeterminazione dei popoli e dell’intangibilità dei confini statali, il riconoscimento reciproco nel disegno comunemente accettato del mondo. Su questa rete di organismi e meccanismi costruiti dopo la seconda guerra mondiale, si basava semplicemente la nostra libertà: ricevuta dalla generazione dei padri, pensavamo di conservarla intatta come un privilegio di pace per noi, e come investimento per il futuro dei nostri figli.
Gli ucraini combattono e muoiono anche per questi principi e per questi ideali. Nella totale asimmetria di questa alleanza, è come se mettessero in campo il loro territorio, le loro case, le loro famiglie, e noi prestassimo il nostro sistema di credenze dalle retrovie, spacciandolo per autentico, anzi universale. Nel turbine della guerra il sistema europeo e occidentale è stato per il Paese aggredito un orizzonte di riferimento, una riserva di valori, una democrazia dei diritti e delle istituzioni nella quale vale la pena vivere e per la quale si può addirittura morire: una promessa, alla quale nel combattimento hanno creduto.
Il fatto è che non ci crediamo noi. Scopriamo che le fondamenta dei nostri ideali sono fragili, le nostre convinzioni deboli, le promesse incerte, gli impegni intermittenti. L’eterna realpolitik fa sbiadire l’identità valoriale, si salda al nuovo egoismo politico, si somma al consumo soltanto individuale della libertà, al restringimento di ogni prospettiva, all’esaurimento di qualsiasi “causa” generale, alla ricerca in solitudine di risposte a domande che sono ormai soltanto private, al sentimento di concorrenza tra il mio destino e quello altrui: con il futuro che torna ad essere una sfida tra indigeni e intrusi, in contesa per lo stesso spazio di vita. Con questo nuovo sentimento nazionale di avarizia politica, è chiaro che l’Ucraina si allontana, man mano che passano i giorni dall’evidenza dell’aggressione. Ormai siamo al rovesciamento dei doveri democratici, ridotti a vincoli di cui non si rintraccia più la ragione: si irride a Zelensky, si esulta a ogni bollettino militare favorevole a Putin, si ridicolizza chi si ostina a sostenere che i valori della libertà non sono a scadenza, ma rappresentano un impegno che è un obbligo. Per arrivare fin qui, infatti, si è saltato un ostacolo decisivo: la fedeltà al principio democratico anche quando — nell’emergenza — si trasforma in un dovere. E infatti il processo in corso passa attraverso nuove stupefacenti manifestazioni di disprezzo per la democrazia, ridotta dal populismo in una confisca permanente delle élite per impiantare la cappa del loro sapere fittizio, ingannando il popolo. Compiuta questa operazione, si realizza l’equiparazione tra democrazia e autoritarismo, e il gioco è fatto.
Le culture politiche tradizionali devono essere davvero inaridite per non fare argine a questo fenomeno. Non stupisce il mondo grillino, che vive di assoluti molto relativi, e non avendo storia può indossare qualsiasi abito, fino a quello della pace sbilanciata, arma perfetta per contendere a poco prezzo consensi al Pd. Non meraviglia neppure la destra, che con Meloni sperimenta un atlantismo convinto e conveniente ma senza radici, come una sovrastruttura artificiale, perché non affonda nella cultura democratica occidentale: e copre le pulsioni filorusse sommerse nella maggioranza, ancora dipinte sulla felpa che Salvini ha riposto nell’armadio, dopo averla indossata sulla piazza Rossa. Il vero stupore è per la sinistra considerata nel suo arcipelago, oltre i partiti. Come può non rendersi conto, dall’Anpi alla Cgil, che non basta dire pace se non si ristabiliscono le condizioni materiali di una democrazia che possa vivere in Ucraina, sostenere una vera pacificazione, mettendo fine al sopruso di Mosca? Come fa a non capire che quegli elementi della democrazia attaccati da Putin sono le ragioni costitutive di ogni futura identità di una moderna sinistra occidentale, qualunque forma prenderà? Come riesce a non distinguere e a non scegliere tra un vecchio antiamericanismo che rigetta “la guerra di Biden” e l’impegno per una nuova Europa protagonista dentro l’alleanza occidentale, per arrivare a una pace giusta e poi a un sistema di sicurezza continentale che garantisca anche la Russia invece di escluderla? Sostenendo l’imperialismo russo si svaluta anche all’ultimo mito realizzato da una sinistra col tabernacolo vuoto, quello della lotta armata di resistenza per riconquistare con gli Alleati democrazia e libertà. Capirlo ancora una volta con vent’anni di ritardo non sarebbe l’ennesimo sbaglio: ma una colpa, annunciata dal Grande Freddo occidentale.
Nell’immagine: una replica della testa e della torcia della Statua della libertà sul lago ghiacciato di Mendota (USA)
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