Il “mio” subcomandante
Ricordo della prima intervista a un giornale straniero del leader zapatista, che oggi scrive libri per bambini
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Ricordo della prima intervista a un giornale straniero del leader zapatista, che oggi scrive libri per bambini
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Ricordo della prima intervista a un giornale straniero del leader zapatista, che oggi scrive libri per bambini
Qualcuno aveva sperato che quella delegazione dell’Ezln comprendesse anche il Subcomandante Marcos. Non poteva che essere un’illusione visto che il sub si era volontariamente “auto-estinto” già nel maggio 2014. “Sì, sono morto; smetto di esistere; ma l’ho deciso io”, aveva dichiarato prima di scomparire del tutto dopo vent’anni col passamontagna “che abbiamo indossato solo perché vi accorgeste di noi”. Prese quella decisione cambiando pure il suo pseudonimo in Galeano, il subcomandante che gli era subentrato anni prima e che era stato ucciso dai paramilitari la settimana precedente.
Ad ogni gennaio ci torna alla mente quella sorprendente rivolta degli indigeni zapatisti, scesi dalla Selva Lacandona con quattro schioppi per occupare per qualche ora San Cristóbal de las Casas; e che lasciò a bocca aperta il mondo intero. Per di più (e non per caso) il giorno stesso in cui entrava in vigore il trattato di libero commercio Nafta fra il Messico e gli Stati Uniti.
Gianni Proiettis e Raffaele Crocco (divenuti successivamente collaboratori di questo giornale) si trovavano proprio lì quel Capodanno a raccogliere le prime dichiarazioni del sub, un perfetto sconosciuto dagli abiti impolverati di cui si intravvedevano gli occhi e una pipa che teneva sempre in bocca.
Ma dell’incredibile ebbe a succedere a noi de il manifesto due mesi più tardi, a fine febbraio quando, divenuto assai famoso in ogni dove (quanto in parte ancora indecifrabile), il subcomandante Marcos tornò a San Cristóbal per incontrarsi col delegato del governo messicano. Ero da qualche giorno in Guatemala dove con Sandra avevamo intrapreso l’itinerario maya; e quella domenica mattina lasciammo il mercato di Cichicastenango con il proposito di attraversare il confine col Messico verso il Chiapas. Ce la prendemmo con comodo, inoltrandoci per le meravigliose lagune di Montebello, pur sapendo che nella coloniale San Cristobal si teneva la riunione con gli zapatisti. Al nostro arrivo, verso le cinque del pomeriggio, un collega di quelli che “coprivano” l’istmo centroamericano mi disse: “è da ieri che bivacchiamo in attesa di novità, e arrivi giusto, il sub ha annunciato una conferenza stampa fra un’ora”. Mi accreditai subito presso il giovane portavoce dell’arcivescovado, che mi conosceva per aver intervistato l’anno prima mons. Samuel Ruiz (della teología de la liberación), “garante” dei colloqui in corso.
C’era qualche centinaio di giornalisti da tutto il mondo, in cattedrale. Facemmo la nostra domanda di turno e alla fine dell’incontro mi diressi verso Marcos. Avevo con me (chissà come mi era venuto) una copia de il manifesto del 19 gennaio (che ricevevo per posta a Managua) con in prima pagina una foto degli operai dell’Alfa Romeo in sciopero ai cancelli di Arese reggendo cartelli con “Viva Zapata!”. Gliela diedi e gli chiesi: “comandante, cosa vorrebbe dire dal Chiapas ai nostri operai dell’Alfa?”. E lui, visibilmente impressionato da quella copertina: “la nostra lotta è comune; ma vi raccomandiamo una cosa: fate in modo che non si spengano i riflettori su di noi, altrimenti ci ammazzano tutti”. All’alba mandai soddisfatto il pezzo al giornale e la voce del sub a Radio Popolare. Saremmo rimasti lì ancora quel giorno per poi proseguire verso lo Yucatan. Ma nel tardo pomeriggio, mentre ci intrattenevamo fra corrispondenti sotto il pergolato del piccolo hotel che ci ospitava, arrivò di corsa il portavoce in cerca dell’inviato del manifesto, che “il subcomandante lo vuole vedere”.
Tornai in cattedrale con un giovane fotografo italiano, Roberto Grisolia. Il sub stava dando un’intervista a una tv privata messicana. Poi sarebbe toccato a noi, nella prima esclusiva assoluta con la stampa estera. Gli misi fra le mani un’altra copia de il manifesto che apriva su “I dannati del Messico”, per qualche foto. Alla fine dell’intervista mi accomiatai regalandogli un antico toscano, storicamente di casa nella nostra redazione esteri.
Le autorità messicane furono ovviamente da subito prese dall’ossessione di individuare la vera identità di Marcos per “ri-materializzarlo”. Ma anche lo scoprire che fosse stato un docente dell’Università Autonoma del Messico, non scalfì minimamente la sua fama di rappresentante degli oppressi di tutte le latitudini.
Due anni più tardi furono firmati gli accordi di San Andrés fra l’Ezln e il governo retto dall’allora presidente Ernesto Zedillo (del Partido Revolucionario Institucional Pri) su “diritti e cultura indigena”. Quegli impegni, che avrebbero restituito dignità ai popoli originari, sono stati poi inseriti in parte nella costituzione messicana, ma purtroppo mai applicati: neppure dopo che nel marzo 2001 Marcos e altri 23 comandanti zapatisti organizzarono una caravana verso Città del Messico nell’intento di estendere a livello nazionale le loro rivendicazioni.
Erano tanto noti quanto troppo minuscoli per ottenere di più. Si aggiunsero poi dissidi fra il subcomandante e la sinistra (sui quali a posteriori Marcos fece pure autocritica), tanto che ancora oggi nel gigante messicano, dominato dai narcos, il timidissimamente progressista presidente López Obrador e gli zapatisti, di fatto, si ignorano.
L’importante è che in tanti anni quei riflettori che dovevano restare accesi sul Chiapas non si siano mai spenti. Favorendo una sorta di patto di “non belligeranza” con le autorità costituite (e i latifondisti locali), che permette ancora oggi ai caracoles zapatisti (municipi autonomi) di continuare a funzionare, sotto l’egida del Subcomandante Moisés. Mentre lo “scomparso” Marcos pare si limiti a scrivere libri per bambini.
Sullo sfondo, il leggendario ispiratore Emiliano Zapata che, come ti racconta ancora qualche campesino laggiù, continua a vagare per le montagne di Morelos e del Chiapas sul suo cavallo bianco. Nel 1914 in piena Revolución Mexicana (ben prima dunque di quella bolscevica) aveva marciato sulla capitale alla testa dell’Ejercito del Sur reclamando “tierra y libertad”.
A quelle parole d’ordine Marcos ha aggiunto concetti come giustizia e democrazia. Che faticano sempre più a farsi strada in America Latina, il subcontinente più violento del pianeta, per il peggior tempestare del “dios dinero” e le conseguenti macroscopiche disuguaglianze sociali. Cui di volta in volta si sono ribellati (e si ribellano) in tanti; da ultimo il Cile di Gabriel Boric. Perseguendo, contra viento y marea, quell’utopia che come diceva il cineasta argentino Fernando Birri, “si allontana ogni volta quanto il tuo avvicinarti”. Facendoti però camminare. Nella direzione giusta.
Scritto per ‘il manifesto’
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