Il sindacalista rap che mette in crisi Amazon e gli altri big
La vittoria contro il colosso dell’e-commerce ha dato il via a una nuova stagione di lotte per i diritti dei lavoratori. E il 71% degli americani è favorevole
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La vittoria contro il colosso dell’e-commerce ha dato il via a una nuova stagione di lotte per i diritti dei lavoratori. E il 71% degli americani è favorevole
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La vittoria contro il colosso dell’e-commerce ha dato il via a una nuova stagione di lotte per i diritti dei lavoratori. E il 71% degli americani è favorevole
Lo stile è quello di un artista hip-hop. La parlantina appartiene a un attivista di ultima generazione, cresciuto a pane e social. A trentacinque anni l’afroamericano Chris Smalls è il volto del nuovo sindacato: giovane, multietnico, sburocratizzato. Quando lo raggiungiamo è di ritorno dal Canada. Nelle ultime settimane è stato in Grecia e in Gran Bretagna. «A Londra si ispirano alla nostra campagna. È un movimento mondiale, in espansione, verrò anche in Italia», ci racconta dalla sua casa in New Jersey.
Solo un anno fa si intestava una vittoria titanica, la sindacalizzazione del JFK8, il centro operativo Amazon di Staten Island. Un terremoto, la prima volta a livello nazionale per il colosso dell’e-commerce, a 29 anni dalla fondazione. I media evocarono il racconto biblico del pastorello Davide che con una fionda e cinque sassi sconfisse il gigante Golia. Smalls, difatti, non aveva esperienza e i fondi raccolti per avviare l’Amazon Labor Union di cui è a capo furono racimolati con una campagna su GoFundMe. Nella sua storia, la Rinascita del movimento operaio, sofferto figlio della pandemia che tanta ineguaglianza aveva messo a nudo.
Oggi il vento della rivoluzione sindacale spariglia le carte in luoghi prima impensabili. Amazon, Apple, Google, Starbucks; ma anche le redazioni di New York Times e Condé Nast, gli atenei, fino alle rimostranze degli autori di Hollywood in lotta contro l’IA. Interscambiabili cartelli e slogan: salari, contratti, condizioni di lavoro, benefit sanitari e contributi. Chi pensa che il “momentum” sia già finito perché non ci sono ancora esiti concreti è miope, dice Smalls, per nulla spaventato dal fatto che il suo gruppo, ad esempio, non sia riuscito a concordare con Amazon un contratto; idem in casa Starbucks, nonostante le oltre 300 caffetterie sindacalizzate.
«La gente si aspetta risultati veloci perché così è costruita la società. Tutto e subito, come la logica delle spedizioni Amazon in due giorni.Sfortunatamente nel movimento operaio il processo è lungo, è una battaglia. La nostra vittoria – continua – ha ispirato milioni di persone, ora bisogna continuare». I dati più recenti indicano che il 71% degli americani è favorevole ai sindacati. Mai così tanti dagli anni Sessanta. Per gli attivisti è tempo di capitalizzare l’entusiasmo. E per farlo, occorre irrobustire il numero degli iscritti. Secondo il Bureau of Labor Statistics, l’anno scorso solo il 10,1% dei lavoratori apparteneva a un sindacato.
Tanti i fattori che contengono il movimento. Prima di tutto una normativa datata 1935 che «favorisce gli imprenditori, non gli operai», spiega Smalls; c’è poi un problema di leadership, con «i vecchi sindacati tradizionali, che non riescono più a intercettare il cambiamento». Senza parlare del timore di ripercussioni. Come quelle accadute allo stesso Chris, messo alla porta dopo uno sciopero contro le condizioni dei lavoratori di Amazon in pandemia.
Bisogna alzare il tiro e rischiare di più, dicono esperti ed attivisti, critici con l’Afl-Cio, la sigla più grande con oltre 12 milioni di iscritti, che ha già fatto l’endorsement alla ricandidatura alla Casa Bianca di Joe Biden. Un sostegno prematuro, che ringrazia il presidente per le cose già fatte, invece di chiederne di più, sottolinea Hamilton Nolan sul Guardian: «I sindacati non devono appoggiare il programma di Biden, possono dettare l’agenda».
Joe Biden intanto si è proclamato “presidente più pro-union” della storia. Ha approvato un investimento da 36 miliardi di dollari per tutelare le pensioni dei sindacati, si è impegnato simbolicamente ad assumere per la campagna del 2024 solo professionisti sindacalizzati e sta spingendo per il Protecting the Right to Organize (Pro) Act, che se mai passasse il vaglio del Congresso, prevederebbe sanzioni per le aziende che violano il diritto di organizzazione.
Smalls e i leader emergenti come lui, però, alla politica non credono più. «L’anno scorso Biden ha affossato lo sciopero delle ferrovie», ci spiega liquidando con poche parole le speranze di cambiamento a Washington. «Siamo indipendenti dalla politica, a differenza dei gruppi istituzionalizzati, come i Teamsters o le union degli insegnanti. Sono attivi da oltre cento anni, dovrebbero fare di più. È ora che i loro leader passino la torcia a chi può diffondere più efficacemente il messaggio». A chi meglio è in grado di leggere i tempi. «Ho incontrato tanti bianchi anziani al potere da decenni. Non rappresentano più la diversità dei lavoratori! I ragazzi si identificano con noi perché siamo come loro, non personaggi impettiti in giacca e cravatta. Grazie a noi i giovani hanno scoperto che protestare per i diritti dei lavoratori può essere “cool”». E i numeri raccolti dal Center for American Progress gli danno ragione. L’ap- provazione dei sindacati da parte della Gen Z è al 64,3%, contro il 60,5% dei millennial e il 57,2% dei boomer. A rappresentarli ci sono minoranze, donne, under 40.
Da ragazzino Chris Smalls voleva sfondare nel rap; dal passato ha traghettato qualche vezzo di forma, come gli occhialoni da sole e le catene dorate. Oggi il pezzo forte è un bomber con la scritta “Eat the Rich”. L’ha indossato anche alla Casa Bianca. Plastico appello al 99% degli esclusi: divorate la fetta di ricchezza in cui l’1% affonda le unghie. «Quando più americani aderiranno ai sindacati, emergerà finalmente la classe media. Ora ci sono solo ricchi e poveri. Tanti dipendenti Amazon hanno bisogno dei buoni pasto del governo per campare. Eppure, lavorano per una delle persone più ricche al mondo. La politica non fa nulla perché le grandi corporation finanziano le campagne. Dovrebbe essere vietato, sarebbe un altro passo verso una vera democrazia!».
Nell’immagine: Chris Smalls
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