L’insostenibile casualità della condizione umana e la politica per Kundera
A 94 anni la scomparsa del più noto autore cecoslovacco, esule in Francia dopo essere stato fra gli intellettuali promotori della Primavera di Praga
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A 94 anni la scomparsa del più noto autore cecoslovacco, esule in Francia dopo essere stato fra gli intellettuali promotori della Primavera di Praga
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A 94 anni la scomparsa del più noto autore cecoslovacco, esule in Francia dopo essere stato fra gli intellettuali promotori della Primavera di Praga
In quell’intervento, Kundera aveva così riassunto “la radice del male”: se si guarda al destino della giovane nazione cecoslovacca, e in generale delle piccole nazioni, appare evidente, disse scandendo le parole, che la sopravvivenza di un popolo dipende dalla forza dei suoi valori culturali, il che presuppone il rifiuto di qualsiasi interferenza da parte dei “vandali”, così definì l’élite che a Praga aveva messo le mani su tutte leve di comando. Difficile negare, scriverà Jacques Rupnik, quanto la successiva “Primavera di Praga”, il tentativo e l’illusione dubcekiana di un socialismo dal volto umano nel cuore impietrito del Patto di Varsavia, dovesse alla rinascita rigeneratrice della cultura, delle arti, del cinema, contributo fecondo all’accelerazione di una crisi del potere, che potrà essere rimesso in piedi soltanto dai cingolati dell’Armata Rossa.
Oggi, naturalmente, giustamente, di Milan Kundera, morto a 94 anni nel volontario, lunghissimo isolamento del suo impenetrabile appartamento parigino, si ricorda soprattutto l’opera letteraria dell’autore che ha sempre esplorato la condizione umana lungo il crinale sottile eppure così resistente del paradosso, “precariamente aggrappato al caso”, più volte citato per un Nobel mai ottenuto. E chissà quanti andranno a rileggersi quell’ “Insostenibile leggerezza dell’essere” – molto acquistato, molto amato, ma probabilmente assai poco letto (davvero) e soprattutto poco capito – che negli Anni Ottanta gli diede notorietà mondiale, diventando libro “pop” e “cult”, persino oggetto di estrapolate citazioni in un vivace programma notturno, e di grande successo, della tv italiana. Ma lo scrittore ironico e irrequieto, il saggista, il regista originario di Brno anche quando, nella sua intensa produzione, scriveva di “privato” manteneva comunque ben teso, visibile se non proprio esplicito il filo della lettura sociale e politica. Nel suo primo romanzo, per esempio, “Lo scherzo”, pubblicato un anno prima della “primavera” praghese, in cui racconta la caduta in disgrazia dello studente Ludvik Jahn , autore di una serie di cartoline con paradossali e obliqui messaggi (tipo “la felicità è l’oppio dei popoli”), che fanno riferimento agli slogan del partito: perciò castigato col classico lavoro in miniera.
Dopo l’espatrio verso la Francia, da cui ottenne la cittadinanza (quella del suo paese gli era stata revocata dopo l’uscita del “Libro del riso e dell’oblio” del ’78) il Kundera “politico” accuserà l’Occidente di aver assistito inerte al destino anche culturale di quella parte orientale del vecchio continente (Polonia, Ungheria, Cecoslovacchia), che fino alla caduta del Muro venne anche definita “l’Europa sequestrata”: una parte di mondo cristallizzato nella divisione di Yalta, che da questa parte della cortina di ferro per un lungo periodo fu per lo più guardata, sbrigativamente e sommariamente, come tassello inscindibile del blocco sovietico. Kundera ha del resto sempre calato i temi dell’attualità politico-sociale nei destini dell’umanità.
“Con il suo destino ha simboleggiato la storia movimentata del nostro paese nel Ventesimo secolo”, ha detto il presidente Petr Pavel. E coi pochi intimi che lo potevano frequentare nella casa della “Rive gauche”, l’intellettuale ex comunista (il partito che cercò di screditarlo segnalandolo come “collaboratore” dei servizi segreti del regime), ma per nulla tenero con i costumi occidentali, alla fine tanto deluso da parlare raramente in francese, lingua in cui aveva scritto la maggior parte della sua opera letteraria, si soffermava spesso sulle precipitose trasformazioni di quest’epoca. Lo conferma Alain Finkelkraut: “A lui devo il fatto di aver capito meglio il mondo: accanto ai paradigmi ‘comunismo e capitalismo’, ‘totalitarismo e democrazia’, Kundera ha spiegato che quel che accadeva in Europa centrale non si riassumeva in una tragedia solo politica, ideologica, e parlava di giogo russo-sovietico. E la sua Cecoslovacchia era, vista dalla Russia, come un Occidente da colonizzare”. Sicuramente in questa chiave avrà letto anche la tragedia ucraina.
Ma sembra, che negli ultimi anni, con quei pochi confidenti con cui si intratteneva, Kundera avesse stabilito un patto: nessuno di loro avrebbe potuto riferire o scrivere il contenuto dei loro colloqui. Aveva rilasciato una sola intervista tv, e, per farsi ricevere, i frequentatori che potevano rendergli visita, avevano dovuto concordare con la moglie Vera una sorta di codice telefonico. Isolamento pressochè totale. Snobismo, fu l’accusa. Certo, temperamento lontanissimo da quello di un altro intellettuale che ha segnato politicamente la storia del suo paese: Vaklav Havel, il drammaturgo fondatore di “Carta 77” (manifesto della dissidenza post-Dubcek), e primo presidente ceco liberamente eletto dopo la “rivoluzione di velluto” di fine ’89. Sembra che non pochi in Cechia avessero rimproverato a Milan Kundera proprio il fatto di non aver seguito l’esempio di Havel, rimanendo e battendosi in patria. Ma comunque protagonisti di una storia comune. Li ha legati un’idea condivisa anche se espressa in modi diversi: quella per cui l’impegno dell’intellettuale non si estranea da quello politico. Anche, forse soprattutto, ribellandosi alla rassegnazione, alla resa, o a un addomesticato senso comune.
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