Il suicidio nascosto di un rifugiato afghano
È successo due giorni fa nel Centro richiedenti asilo di Cadro; né il Cantone né la Croce Rossa ne hanno ancora dato notizia - di Immacolata Iglio Rezzonico
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È successo due giorni fa nel Centro richiedenti asilo di Cadro; né il Cantone né la Croce Rossa ne hanno ancora dato notizia - di Immacolata Iglio Rezzonico
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È successo due giorni fa nel Centro richiedenti asilo di Cadro; né il Cantone né la Croce Rossa ne hanno ancora dato notizia - di Immacolata Iglio Rezzonico
Martedì 11 luglio 2023 nella tarda serata una giovane vita umana si è spezzata.
Arash aveva solo 20 anni e un possibile futuro davanti a sé.
Proveniva dall’Afghanistan, fuggito ancora minorenne e arrivato in Svizzera nel novembre del 2019.
Aveva portato con sé il suo bagaglio di fragilità, di paure e di solitudine dovuto a ciò che aveva subito e visto in Afghanistan e a ciò che aveva visto e subito durante il viaggio.
Arash era un ragazzo, un giovane, che per la sua età aveva già dovuto vivere esperienze che nemmeno noi adulti occidentali ci sogneremmo di vivere.
Arash era fuggito perché ancora sperava di poter cambiare la sua vita, di renderla migliore, di viverla in modo sereno e spensierato come dovrebbe essere quella di tutt*, soprattutto dei ragazzi e delle ragazze della sua età.
Arrivato in Svizzera, da subito, il suo malessere si era manifestato.
Purtroppo, però, come accade sempre in questo sistema di cosiddetta accoglienza per i richiedenti asilo, l’unica soluzione è stata quella di acquietarlo con i farmaci.
Nessun percorso di reale presa a carico, di socializzazione, di relazione umana e affettiva è stato intrapreso.
Né può bastare affermare che “alcuni operatori” si erano presi a cuore la situazione.
Una vita umana non può essere in balia del funzionario e/o operatore di turno, della sua sensibilità o non sensibilità, della sua preparazione o non preparazione.
Non è una roulette russa. Non è perché provengono da paesi stranieri che ci si può arrogare il diritto di decidere della vita altrui, limitandola, umiliandola, anestetizzandola, maltrattandola.
Arash aveva solo bisogno di essere accolto come essere umano, non certo sballottandolo da un centro ad un altro, lasciandolo di fatto solo.
Non potevano certo essere i ricoveri a Mendrisio che potevano aiutarlo ad allontanare i “mostri” che abitavano la sua vita.
Arash era da circa un anno al Centro per richiedenti asilo di Cadro, isolato, solo, senza alcun sostegno.
La sua vita era appesa ad un filo, il filo della speranza di poter avere un futuro migliore, il filo che lo ha legato e accompagnato alla morte nella sua stanza nella sera del 12 luglio 2023.
Oggi, dopo due giorni, nessuno dei responsabili ne ha fatto ancora parola.
Né il Cantone, né la Croce Rossa.
Eppure all’interno del Centro un evento drammatico è accaduto. Le persone sono scosse, arrabbiate.
Perché questo silenzio? Non è per rispetto ad Arash, che invece almeno nella sua morte merita di essere ricordato per quello che era: un essere umano fragile.
Il silenzio che è calato ed è stato imposto è probabilmente per nascondere responsabilità di un suicidio annunciato.
Uno dei tanti, purtroppo.
Arash non è il primo e non sarà nemmeno l’ultimo se questo sistema di cosiddetta accoglienza non viene modificato.
La famiglia è stata avvertita? Come si onoreranno le esequie di Arash?
Che tipo di intervento Croce Rossa e Cantone pensano di intraprendere per sostenere le persone che sono all’interno del centro di Cadro?
Perché i minorenni non accompagnati vengono affidati a curatori che devono seguire almeno 80 casi ciascuno senza poterlo effettivamente fare?
Perché le fragilità delle persone che arrivano in Svizzera per chiedere aiuto vengono affrontate solo con i farmaci?
Perché persone come Arash vengono lasciate a loro stesse nella convinzione che se succederà qualcosa, oltre a nasconderla, farà parte delle statistiche?
Perché queste persone sono costrette a vivere rinchiuse in centri securizzati, controllati, limitanti la libertà di movimento ed azione?
Non si può rispondere che è per la loro e nostra sicurezza. Innanzitutto perché non c’è un noi e loro. Siamo tutti essere umani, ognuno con le proprie aspirazioni, volontà, culture, difficoltà, che non possono pregiudicarci e avvantaggiarci solo per il luogo in cui si nasce.
In secondo luogo perché un’altra accoglienza è possibile. Lo abbiamo visto e lo stiamo facendo con le persone che fuggono dall’Ucraina.
L’anno scorso 72’000 persone ucraine hanno ricevuto un permesso “S” e vivono qui in Svizzera, a fronte di 24’000 persone provenienti dagli altri paesi e di cui solo 4’500 circa hanno ottenuto un permesso come rifugiati.
Smettiamola di voltarci dall’altra parte. È una nostra responsabilità l’accoglienza.
Sfruttiamo terre e persone di altri paesi, li devastiamo e deprediamo colonizzandoli e armandoli e poi ci lamentiamo che fuggono.
Arash fuggiva dall’Afghanistan e aveva solo voglia di vivere, ma la sua storia e la non accoglienza umana qui in Svizzera lo hanno portato a scegliere altro.
Quella che il bruco chiama fine del mondo, il resto del mondo lo chiama farfalla (Lao Tzu)
Spiega le tue ali Arash.
Immacolata Iglio Rezzonico è avvocata, specialista di diritto della Migrazione
Nell’immagine: una stanza di un centro cantonale per rifugiati
Contattato dalla redazione di Naufraghi, il direttore dell’Ufficio cantonale dei richiedenti asilo e dei rifugiati, Renzo Zanini, ci ha risposto via e-mail quanto segue:
“Per rapporto al drammatico evento, nel rispetto della persona deceduta, dei suoi conoscenti e dei suoi familiari, non si ritiene opportuno riferire elementi di dettaglio, tenuto altresì conto che le autorità stanno effettuando i dovuti accertamenti.”
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