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Paolo Favilli
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• 2 Luglio 2022 – Paolo Favilli
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«Dopo la fine della guerra fredda un sistema globale di stabilità bipolare ha lasciato il posto  ad una più complessa  e imprevedibile varietà di forze, ivi compresi imperi in declino e potenze in ascesa, una situazione che invita al confronto con l’Europa del 1914» (C. Clark, I sonnambuli, 2013). Nota ancora Clark: «Coloro che ebbero la responsabilità delle principali decisioni (…) camminarono verso il pericolo con passi guardinghi e calcolati».

Oggi si può leggere sulla stampa che l’UE potrebbe sparire  prima dell’ingresso dell’Ucraina  (Medvdev); che l’esercito inglese deve prepararsi a combattere in Europa (Capo dell’esercito britannico);  che saranno ripresi i sacri confini del 1991 (Zelensky); che la Lituania blocca i treni per Kaliningrad dopo aver sentito Bruxelles; che la Russia avrà operativi entro la fine dell’anno i missili ipersonici Sarmat, armi di incredibile potenza distruttiva (Putin); che la Russia è il nemico e la Cina è avvertita (Ambasciatore italiano alla Nato). Dove stanno i limiti della «cautela»?

I «sonnambuli» del 1914 non erano a conoscenza degli effetti che il salto di qualità delle tecnologie belliche avrebbe avuto sui caratteri catastrofici della guerra verso cui si stavano incamminando. L’ultimo conflitto tra potenze europee nel continente risaliva al 1870. I decisori attuali ne hanno, invece, piena contezza e avanzano con calcoli ottenebrati da una lucida follia.

L’odierna crisi, è ovvio, si sta svolgendo in  un contesto assai diverso rispetto a quella del 1914, e non solo per la presenza della variabile nucleare, ma anche perché è cambiato il rapporto Europa-mondo, e di conseguenza i caratteri dei diversi imperialismi. In particolare il rapporto tra imperialismi continentali e concezione di dominio imperiale del mondo, anche se i due aspetti s’intrecciano nel viluppo costituente la crisi. Non è cambiata, però, la logica della relazione imperialismi / nazionalismi come componente essenziale di tale viluppo. 

La «nazione» come valore assoluto, con tutto ciò che comporta sul piano dei rapporti con nazioni altre, in particolare con quelle con le quali si è condivisa parte essenziale della propria storia tanto da avere spazialità e culture sostanzialmente indistiguibili, diventa quasi naturalmente il terreno di conflitti difficilmente mediabili proprio alla luce della sua assolutezza.

D’altra parte tali esiti erano scontati nel caso delle statualità nate dalla dissoluzione dell’Urss. Le oligarchie che si trovarono al potere nei nuovi organismi altro non erano che lacerti della vecchia nomenclatura sovietica, del tutto screditati dalla gestione corrotta del tardo stalinismo che aveva contraddistinto l’epoca brezneviana e i suoi trascinamenti. Proposte di rinnovamento come aggiornamento di ipotesi socialiste non avrebbero avuto alcuna credibilità. Perciò gli oligarchi non avevano altra scelta che mettersi a capo delle latenti pulsioni nazionalistiche.

Si è trattato, però, di una operazione da apprendisti stregoni. Tali pulsioni quando entrano in un contesto di conflittualità aperta diventano facilmente incontrollabili. I confini, anche se fortuiti, diventano sacri custodi di una naturalistica e antistorica «ucrainicità», «uzbekicità», ecc. 

Oggi, quelle logiche pulsionali s’intrecciano con un sistema di relazioni internazionali già conflittuali alla fine del secolo scorso e giunte ad un punto in cui la tentazione di sciogliere nodi globali nel locale (per ora) del martoriato terreno ucraino viene apertamente sostenuta. È difficile, quindi, confidare in «passi guardinghi e controllati». 

La sinergia tra gestione militare del mondo e del dollaro da parte degli Stati Uniti e della loro appendice Nato, l’imperialismo territoriale della tradizione della Grande Russa, il micronazionalismo assoluto dei nuovi stati che si definiscono come entità basate sulla monodimensionalità di una nazione, formano un composto instabile e tendenzialmente esplosivo.

Nella manifestazione dei nuovi nazionalismi seguiti alla dissoluzione dell’Urss non c’è nessuna traccia di progettualità concernente la sfera della democrazia sociale, e dunque anche politica. Il nazionalismo ha sostituito, con successo, il programma di emancipazione dei subalterni. Il nazionalismo ha assunto la stessa funzione avuta dall’antisemitismo al tornante dei secoli XIX e XX. Giustamente, allora, fu definito come «il socialismo degli imbecilli».

«Il manifesto» dell’8 giugno ha pubblicato sulla guerra in Ucraina uno degli interventi più incisivi per definire il punto di vista del campo che intende esser erede della storia del movimento operaio e socialista, quello del destino dei subalterni (F. Contini, Il conflitto nel racconto della badante). Ecco, è di lì che bisogna ripartire, dalle ragioni di coloro, i subalterni appunto, che saranno gli sconfitti di questa guerra, chiunque tra i belligeranti finisca per risultare vincitore sul campo di battaglia. Ammesso che un campo dove misurare la vittoria o la sconfitta ci sia ancora.

Nell’immagine: un recente lancio di prova del mostruoso missile russo Sarmat






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