Jenin-Gerusalemme le stragi si inseguono
In 48 ore (ufficialmente) più morti in Palestina e Israele che sotto la pioggia di bombe russe sull’ Ucraina
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In 48 ore (ufficialmente) più morti in Palestina e Israele che sotto la pioggia di bombe russe sull’ Ucraina
• – Aldo Sofia
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• – Michele Ferrario
A cento anni dalla nascita della scrittrice ticinese Alice Ceresa
• – Enrico Lombardi
Sempre più si afferma la percezione che si possa esercitare la propria cittadinanza in modo diretto, ma la democrazia è un sistema di valori, non solo un metodo di votazione
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• – Franco Cavani
Come restituire un senso vivo al passato? Come si “maneggia” la memoria? È possibile tramandarla senza contaminarla?
• – Redazione
Davanti al Binario 21 di Milano il murale per il Giorno della Memoria
• – Redazione
Come ci ricorda Liliana Segre, “l’indifferente è complice dei misfatti peggiori”
• – Andrea Ghiringhelli
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• – Franco Cavani
Malgrado indizi più o meno eclatanti sui suoi rapporti con la Svizzera, l’inchiesta elvetica contro il boss di “Cosa Nostra” si è conclusa con un nulla di fatto.
• – Federico Franchini
In 48 ore (ufficialmente) più morti in Palestina e Israele che sotto la pioggia di bombe russe sull’ Ucraina
La peggiore strage anti-israeliana nella ‘capitale eterna’ degli ultimi 14 anni. Fatta la somma delle vittime, se i numeri dati da Kiev sono veritieri, in 48 ore ci sono stati meno morti sotto la pioggia dei missili russi sull’Ucraina (ritorsione per la promessa consegna dei tank occidentali a Zelensky) che nelle terre della Palestina e di Israele. Prima a Jenin, la città palestinese più a nord della Cisgiordania, la più lontana da Gerusalemme, anche la più ribelle, quindi la più battuta dai raid spesso sommari di Tsahal alla ricerca degli oppositori (anche armati) contro l’occupazione israeliana. Quindi escalation. E timore che possa iniziare una ‘terza Intifada’. Tutto perfettamente in sintonia con l’immagine che Benjamin Netanyahu lasciò al momento della sua ultima sconfitta elettorale, prima di tornare, nel settembre scorso, alla guida della nazione. Costretto, si dice, a farlo alleandosi con i due partiti più ultra-ortodossi, ultra-nazionalisti e ultra-identitari di Bezalel Smotrich e di Itamar Ben-Gvyr, uno che gira con la rivoltella ben in vista alla cintola, che vuole l’annessione di tutti i territori occupati, predica la netta separazione fisica fra ebrei ed arabi, e che nel salotto di casa ha appeso il ritratto del rabbino Meir Kahane, autore nel 2009 della strage anti-araba sulla tomba di Abramo a Hebron, fondatore di un partito talmente impresentabile da essere stato messo fuori legge dalle stesse autorità israeliane. Insomma, il peggior partner possibile.
In realtà, un “Bibi” Netanyahu, ormai chiamato ‘the king’ per la sua incredibile longevità al governo, che anche in una sua recente autobiografia, insiste sul tema della forza e della superiorità militare per imporsi anche sul piano della diplomazia (vedi “Accordi di Abramo”, soprattutto con gli sceicchi del Golfo, sunniti in fregola contro gli sciiti, nonché etero-diretti dall’Arabia Saudita, regista poco occulto dell’avvicinamento allo Stato ebraico in funzione anti-Iran). E nemmeno ha cambiato idea, Netanyahu, sulla controffensiva da condurre contro la magistratura che intende processarlo e contro cui intende varare leggi restrittive che hanno indignato il paese, fratturandolo ancor più profondamente e portando in strada ogni sabato centinaia di migliaia di giovani.
Dall’altra parte, aumenta la debolezza dell’88enne presidente palestinese Abu Mazen, imbelle di fronte alla corruzione nel suo campo, sempre meno rappresentativo, contestato per la sua insipienza e inattività, esattamente la condizione in cui lo volle schiacciare l’attuale premier israeliano, negandogli ogni possibilità di vero dialogo, ogni prospettiva di una soluzione di pace fondata sulla creazione di “due Stati”, ogni pur minimo segnale di distensione. Consapevole, “Bibi”, di alimentare così la diffusione anche in Cisgiordania del jihadismo radicale di Hamas, e di favorire la perdita da parte del Fatah ( laico ed erede di Arafat) del controllo delle maggiori città palestinesi, Ramallah esclusa (perché troppo vicina ai carri armati israeliani). Un radicalismo islamista ‘promosso’ dallo stesso Netanyahu che poi si auto-propone come scudo. Due crisi, israeliana e palestinese, che di nuovo si sommano e si scontrano. Risultato: una grande crisi irrisolta, complice la comunità internazionale (USA in primis), e che tuttavia continua a inseguire i suoi prepotenti (israeliani) o incapaci (palestinesi) decennali protagonisti.
Nell’immagine: gli scontri di Jenin
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