La prima progressista del Guatemala: Arévalo presidente
Con il 58% delle preferenze, il professore ha sconfitto la peggior destra di Sandra Torres. Resta il nodo degli indigeni, esclusi dalla dirigenza e protagonisti dell’astensione
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Con il 58% delle preferenze, il professore ha sconfitto la peggior destra di Sandra Torres. Resta il nodo degli indigeni, esclusi dalla dirigenza e protagonisti dell’astensione
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Con il 58% delle preferenze, il professore ha sconfitto la peggior destra di Sandra Torres. Resta il nodo degli indigeni, esclusi dalla dirigenza e protagonisti dell’astensione
Arévalo, 64 anni, sociologo, ha nettamente sconfitto (58%) la sua antagonista Sandra Torres (37%) battuta al suo terzo ballottaggio consecutivo, pur aderendo (lei un tempo primera dama del presidente moderato Àlvaro Colon) alle peggiori destre riunite nel cosiddetto Pacto de los Corruptos.
La sorpresa era già stata grande al primo turno: esclusi arbitrariamente i candidati della sinistra (a cominciare dall’indigena maya Thelma Cabrera del Movimiento para la Liberación de los Pueblos) nessuno si sarebbe aspettato che Arévalo, in fondo ai sondaggi, sarebbe passato allo spareggio. Del resto il primo schieramento a imporsi nell’urna era stata la scheda bianca.
Di lì in poi è scattata una sorta di speranzosa aggregazione intorno a lui per provare a lasciarsi alle spalle l’epoca di tre devastanti presidenti: l’ex generale Otto Perez Molina, il presentatore televisivo Jimmy Morales e l’uscente Alejandro Giammattei.
Il sistema di potere militar-oligarchico aveva cercato tra un turno e l’altro di mettere fuori legge il Movimiento Semilla (nato nel 2015 da proteste di piazza popolari contro il governo Molina e di cui Arévalo era deputato) inventandosi presunte raccolte di firme irregolari. Che il Tribunale supremo elettorale così come la Corte costituzionale hanno rigettato. Non che l’affluenza alle urne dal giugno scorso sia poi cresciuta. Ma perlomeno quel 45% di guatemaltechi con diritto al voto che si è recato ai seggi si è concentrato su Arévalo.
All’uscente Giammattei non è rimasto che ingoiare il rospo promettendo un «corretto passaggio di consegne». Torres al momento non ha ancora riconosciuto la sconfitta, lei che aveva stigmatizzato una presunta campagna del suo contendente pro-aborto e matrimoni gay. In realtà Arévalo ha precisato che l’aborto resterà legale solo in caso di pericolo di vita della gestante, mentre sui diritti Lgbtqi+ si è limitato a escludere qualsiasi pratica di discriminazione di genere come di religione.
Un altro degli argomenti sventolati da Torres per delegittimare il suo antagonista era che Arévalo fosse in realtà uruguaiano, per non essere nato in Guatemala e aver vissuto gran parte della sua gioventù a Montevideo. Omettendo che Bernardo ci era finito suo malgrado seguendo l’esilio forzato di suo padre, Juan José Arévalo, all’indomani del golpe del 1954 della bananiera United Fruit e della Cia che rovesciò il decennio della rivoluzione democratica dei giovani militari guatemaltechi, i cui Juan José fu presidente dal ’44 al ’51.
Potremmo definire il professor Bernardo Arévalo un socialdemocratico, di classe media, bianco (insieme alla sua vice Karen Herrera) come del resto tutta la classe dirigente di questo paese a maggioranza indigena. Ma come mai la ritirata Nobel per la pace Rigoberta Menchù non ha appoggiato Thelma Cabrera? Che poi a sua volta ha chiamato i suoi all’astensione in questo decisivo testa a testa?
Come in Ecuador, anche in Guatemala si confermano i difficili rapporti fra autoctoni e criollos, i discendenti dei conquistadores spagnoli. Oltre alle inesorabili divisioni tra le sinistre di ogni dove.
Ad Arévalo viene pure attribuito di essere filo Biden (qualcuno lo definisce, alla meno peggio, il Sanders guatemalteco) con l’ambasciatore Usa a essersi complimentato con lui assicurandogli appoggio su sicurezza e lotta al narcotraffico. Ma anche il presidente messicano Lopez Obrador e il salvadoregno Nayib Bukele (entrambi confinanti) lo hanno felicitato.
Arévalo ha messo al centro del suo programma lotta alla corruzione, rientro di decine di giudici e procuratori riparati all’estero e libertà d’espressione. Chissà riesca a liberare quel Rubén Zamora, direttore di quello che fu l’unico giornale libero di questo paese (El Periódico) condannato al carcere proprio per aver denunciato più volte quella corruzione.
Non gli sarà facile, in un parlamento frammentato in una ventina di formazioni, con Semilla lontanissima dall’avere la maggioranza. Ma ancor prima, all’indomani delle elezioni più internazionalmente osservate nella storia del Guatemala, c’è da augurarsi che di qui al lontano 14 gennaio, data di assunzione (per quattro anni) della massima carica dello stato, a Bernardo Arévalo non succeda nulla.
Articolo scritto per il manifesto
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