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Anni di profonda crisi sociale hanno provocato collera e umiliazione. E ora, con l'approvazione della riforma delle pensioni, si richiede l’ennesimo sacrificio


Redazione
Redazione
La Francia che dice no
• 2 Aprile 2023 – Redazione
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Di Francesca Barca, Il Mulino

C’è un movimento di dissenso in Francia, che si alimenta e cresce da tempo. Forte o debole, silenzioso o rumoroso, a volte discontinuo. Certamente diverso e multiforme, nelle pratiche e nelle visioni. Un movimento che ha trovato un punto di incontro semplice, facile da capire e universale: le pensioni.

Due anni in più di lavoro, da 62 a 64 anni. Non per forza pagato meglio, o non per tutti (in particolare le donne e i precari). Due anni di vita. Semplicemente due anni di vita. In gioco – e questo già da prima della questione delle pensioni – c’è la legittimità di Macron, del suo governo. E del mondo che Macron rappresenta. Eletto con il 58% dei voti al secondo turno (18.768.639 voti, il doppio di quelli che ha preso al primo turno, su un corpo votante di 48.752.339 persone), ha ricevuto la voce di chi voleva fare barrage a Marine Le Pen, in un Paese spaccato che si è mobilitato per dare una chance alla France Insoumise di Mélenchon, che non ha passato il secondo turno per un niente. Un Paese dove – come in tanti altri, e dovremmo ascoltare, parlarne, contare, ripensare – l’astensione ha toccato il 28% del corpo elettorale (12,8 milioni di astensioni e oltre 700 mila schede bianche o nulle, in tutto oltre 13 milioni di persone).

I numeri danno legittimità democratica alla maggioranza, non vi è dubbio. Ma è una maggioranza reale? E, soprattutto, che cosa e chi rappresenta?

Le mobilitazioni in corso contro la riforma delle pensioni fanno eco, nella memoria collettiva e nella pratica, a quelle del 1995 contro un’altra riforma previdenziale. Ed era dal 1995 che l’intersindacale non si riuniva. Le vorrei mettere in fila le attuali proteste con quelle, fortissime, che hanno bloccato Parigi anche nel 2019, sempre per una riforma delle pensioni, sempre promossa dallo stesso governo.

Gli scioperi nei trasporti sono stati violenti e continui per una riforma il cui testo era meno comprensibile perché pareva toccare solo alcuni settori: i lavoratori dei trasporti pubblici soprattutto, per tagliare in parte i vantaggi (non privilegi) del loro statuto. Vantaggi per lavori altamente usuranti, come una pensione anticipata o stipendi e orari migliori, che permettono di accettare quei posti e impegnarvisi. Non privilegi.

Queste proteste, quelle del 2019, che sono state messe in stand by da una crisi sanitaria mondiale, così come le piazze dei gilet jaunes: ricordiamo le granate lanciate dalla polizia e i manifestanti che disperatamente cercavano di allontanarle, mentre alcune esplodevano loro tra le mani. Esito: richiami internazionali alla Francia, 36 i mutilati permanenti, numerosi i feriti gravi.

La crisi del Covid è stata pagata con il sudore e la pazienza di chi non ha voce in capitolo nelle discussioni e applicazioni delle politiche – uso una parolaccia – neoliberiste che hanno tagliato fondi pubblici alla salute, ai trasporti, all’assistenza, all’istruzione. Che hanno avuto come contraltare dalla politica il richiamo alla responsabilità individuale, in un discorso pubblico che non di rado ha fatto passare la crisi sanitaria e la pandemia come responsabilità di chi porta a spasso il cane.

I cittadini e le cittadine francesi non hanno mai «votato per lo smantellamento delle Poste, dell’università o delle linee ferroviarie di piccole e medie dimensioni. In tutti i casi, il deterioramento della qualità dei servizi forniti ha costretto gli utenti a ricorrere a servizi sostitutivi: tecnologia digitale, car pooling, istruzione superiore privata. O i risparmi per la pensione. Servizi ai quali le persone si stanno abituando, o almeno rassegnando», dice su “Le Monde Diplomatique” Grégory Rzepski.

La nuova riforma delle pensioni, quella votata con l’articolo 49.3 della Costituzione è, come dicevo, più semplice da capire del testo del 2019. Tutti e tutte devono lavorare di più. Perché non può essere diversamente. Perché occorre sacrificarsi. Questo nel momento in cui escono i dati sulla crescita dei dividendi delle imprese nel mondo. Proprio la Francia ha visto la crescita maggiore in Europa: 59,8 miliardi di euro (+4,6%), per TotalEnergies e LVMH, che garantiscono i dividendi più alti ai loro azionisti. Con il 95% delle società francesi (dati Janus Henderson, fonte OuestFrance) che ha aumentato o mantenuto i dividendi del 2022.

In parallelo, l’inflazione esplode, aumenta la povertà, aumentano le precarietà lavorative, abitative, alimentari. I sondaggi dicono che i francesi e le francesi sono largamente contrari a questa riforma. Dall’inizio di questo movimento, le rilevazioni demoscopiche sono state sempre largamente favorevoli al “no”, mai meno del 55%, con picchi al 70% in alcuni periodi. Gli ultimi sondaggi, effettuati dopo il voto delle mozioni di censura (non passate, ma che raccoglievano il 68% dell’adesione e che implicavano un’eventuale caduta del governo), raccontano che il 58% delle persone consultate sostiene i blocchi e gli scioperi. Dati che salgono in base agli intervistati: il 76% degli operai e degli impiegati, con picchi dell’88% tra gli elettori di Mélenchon e del 68% tra quelli di Marine Le Pen e del 24% tra gli elettori di Macron (non poco, vista la percentuale di pensionati che hanno eletto l’attuale presidente della Repubblica).

La forzatura democratica – seppure costituzionalmente accettabile – messa in atto dal governo francese, che ha fatto passare una riforma altamente impopolare grazie all’articolo 49.3 della Costituzione, è un schiaffo alla piazza. In sé, il 49.3 (spiegato bene qui, che permette di far passare un testo senza il voto del Parlamento) è stato usato spesso, troppo spesso. Undici volte solo dall’ex socialista Élisabeth Borne, che detiene il record dell’uso dell’articolo dalla riforma costituzionale del 2008. Da qui le tante critiche, non solo da parte dei movimenti sociali, rispetto all’uso di questo strumento. Il voto, inoltre, è arrivato dopo settimane dure e dense. E dopo anni di profonda crisi sociale che hanno lasciato dietro di loro collera e umiliazione.

«Siamo di fronte a una crisi di regime, perché è il principio stesso della rappresentanza del popolo da parte di rappresentanti eletti, quello ereditato dal 1789 e su cui si basano le nostre istituzioni, a essere messo in discussione. L’idea stessa del voto si sta esaurendo, non è più sufficiente a creare un legame duraturo», dice su “Le Monde” Dominique Rousseau, professore di Diritto pubblico all’Università di Parigi-I-Panthéon-Sorbonne. «Il 49.3 è la traduzione istituzionale dell’adagio “Non è la strada che governa”, ma da diversi anni ormai c’è una richiesta da parte dei cittadini di essere più coinvolti. Questo crea qualcosa che va oltre la crisi politica».

Macron è apparso soddisfatto: «Usare la Costituzione per approvare una riforma è sempre una buona cosa se si vuole essere rispettosi delle nostre istituzioni», ha detto il presidente della Repubblica durante un incontro con la sua maggioranza. Aggiungendo che avrebbe voluto farsi capire meglio, «ma non potevamo fare diversamente». Avrebbe potuto farsi capire meglio o si è fatto capire perfettamente? Ma capire Macron significa accettare il mondo che lui impone. Significa non esercitare senso critico. Per molte donne e molti uomini francesi significa accettare l’ennesimo sacrificio. Così il tutto si traduce in un ulteriore schiaffo alle piazze, disconoscendo la fatica e gli sforzi.

L’arroganza è la linea rossa che, all’altezza del mio sguardo, sento nelle discussioni, negli editoriali, alle manifestazioni. Durante le cene o alla pausa caffè. Che cosa rappresentano queste proteste? Un’idea di un altro mondo possibile, un mondo dove il lavoro non solo è per tutti, ma dove non è centrale nella vita.

Sino a settimana scorsa si contavano 292 persone arrestate (quasi tutte rilasciate) giovedì 16 marzo, 60 venerdì 17 marzo; 287 lunedì 20 marzo. Amnesty International segnala gli abusi, il prefetto (e quindi lo Stato) minimizza. In totale dal 16 marzo oltre 800 persone sono state in fermo di polizia. «Le sommosse non prevalgono sui rappresentanti del popolo» e «la folla non ha legittimità di fronte al popolo che si esprime sovranamente attraverso i suoi rappresentanti eletti», ha detto Macron, richiamato da “Le Monde”. Da un lato c’è la democrazia del “popolo” che ha votato gli eletti, che però non avevano la maggioranza all’Assemblea per far passare la legge; dall’altra le “folle”, ossia milioni di cittadini e cittadine scesi in piazza.

Se le parole sono importanti, bisogna ricentrarne il senso perché i significati rischiano altrimenti di essere fatti scivolare, per trasformarsi. Occorre dunque ricentrarne il senso per capirsi, collettivamente. Mettere in opposizione i due termini –  popolo e folle – significa giocare sporco e rifiutare non solo di affrontare la realtà, ma negare quella che ha di fronte a sé chi ti parla. Traspaiono così l’arroganza e la violenza del lessico del potere.

La Francia cade a pezzi. Gli ospedali e più in generale il sistema di Welfare sono dissanguati dai tagli alla spesa: la Francia di oggi è quella dei deserti medicali, degli scioperi di medici e infermieri, degli assistenti sanitari, degli insegnanti, degli studenti, del settore dell’energia e dei trasporti. E tutto ciò da prima di questa riforma.

Che cosa vogliono i francesi e le francesi? Dopo che la maggioranza relativa dei francesi ha confermato questo presidente nel suo mandato, ora molti di loro vogliono dire “no” a Macron e al suo mondo, a un sistema che ha preso una direzione sempre più netta, nel quale chi non aderisce al lessico dominante dello sforzo, dell’impegno e del debito è marginalizzato. La realtà è assai complessa, più di queste parole, più di tante analisi, molto di più degli slogan. Le semplificazioni vengono fatte da entrambi i lati della barricata, simbolica e ormai reale. Ma non con gli stessi intenti.

Ho partecipato a tutti gli scioperi, tranne il primo, dall’inizio delle proteste. Sono stata a diversi assembramenti e a qualche assemblea generale improvvisata. Ho visto spaccare vetrine, dare fuoco a cassonetti. Ma ho visto soprattutto gente camminare, ballare, mangiare, cantare, discutere. Sono andata con amici e amiche, giornalisti e giornaliste, insegnanti, operai, lavoratori e lavoratrici dello spettacolo, medici, operatori e operatrici sociali. Sono stata a Place de la Concorde e a Place de la République. C’erano studenti che ballavano e cantavano, c’erano insegnanti e pensionati. Tra i cartelli presenti a Place de la Concorde la sera del voto in Parlamento ne spiccava uno con un semplice “Vivre”. Tutto lì.

Il dopo voto ha segnato una svolta, nei numeri (1,08 milioni di persone secondo il ministero degli Interni, 3,5 milioni secondo la Confédération générale du travail) e anche negli atti di violenza o vandalismo, in tutta Francia. Tantissimi gli studenti.

Parigi – la Francia tutta – è nervosa, stanca, umiliata. Divisa in due, in tre o in cinque mondi possibili. In un Paese che ha mantenuto la tradizione della piazza, la Francia va in piazza. La Francia prova, semplicemente, a dire “no”. Non solo a questa riforma.






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