La strategia zero-Covid sul banco di prova in Asia
Mentre l’Europa si prepara alle riaperture estive, in Asia si richiude, allarmati dalle nuove varianti
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Mentre l’Europa si prepara alle riaperture estive, in Asia si richiude, allarmati dalle nuove varianti
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Mentre l’Europa si prepara alle riaperture estive, in Asia si richiude, allarmati dalle nuove varianti
Statistiche alla mano, è evidente che le misure di prevenzione e sterminazione hanno portato risultati positivi in paesi come Singapore e Taiwan appunto, ma anche Australia e Nuova Zelanda, per citarne alcuni. Il numero di casi e decessi è inferiore al resto del mondo e la performance economica migliore di molti paesi occidentali. Ma per quanto?
Il Giappone ha esteso lo stato di emergenza in diverse prefetture, Taiwan ha imposto le restrizioni più severe dall’inizio della pandemia, chiudendo i luoghi di intrattenimento, limitando gli assembramenti, introducendo il telelavoro. 333 nuovi contagi sono un record per il Paese da 23 milioni di persone, che ha registrato soltanto 1682 infezioni e 12 decessi da coronavirus. Singapore, che conta ad oggi 31 morti , è tornata in semi-lockdown dopo un picco di 38 casi positivi in un giorno, con assembramenti limitati a due persone, la chiusura di ristoranti e scuole, l’aumento della quarantena in albergo da 14 a 21 giorni per quasi tutti i viaggiatori e la sospensione dei permessi di rientro nel Paese per centinaia di migliaia di residenti, esclusi i singaporiani e i residenti permanenti. Tutto questo sebbene il 25% della popolazione sia vaccinato. A preoccupare è la variante indiana.
La reazione decisa di fronte alle nuove infezioni, i cui numeri fanno probabilmente sorridere chi vive in realtà epidemiologiche più gravi, è uno dei denominatori comuni della strategia dei paesi della regione, che hanno saputo contenere la pandemia; il secondo è la quasi totale chiusura dei confini, in vigore dall’inizio del 2020. Più volte è stato detto che si tratta di isole e quindi qualsiasi paragone con l’Europa è inappropritato, ma anche il Vietnam o la Thailandia, hanno ben gestito la prima ondata, limitando il numero di morti.
A preoccupare è il fatto che a Singapore la pandemia è ripartita proprio dall’aeroporto, dopo il contagio di un addetto alle pulizie, vaccinato; un caso positivo registrato nella comunità quindi e non importato, come è stato per quasi tutti i contagi degli ultimi nove mesi. A Taiwan il focolaio è scoppiato tra i membri di una compagnia aerea, connessi ad un albergo destinato alla quarantena per i passeggeri in arrivo.
Il sigillo dei confini, l’arma vincente per oltre un anno, ha quindi dimostrato i suoi limiti. Le infezioni che sono seguite, non legate tra di loro, hanno spinto i governi ad optare per misure forti. Test a tappeto, isolamento dei contatti e poi un chiaro invito a non uscire di casa e a non viaggiare. Questo dove già è obbligatorio scaricare l’applicazione per il tracciamento dei contatti e dove, per entrare ed uscire da ogni edificio pubblico e privato, bisogna scansionare un codice a barre.
Il concetto di quarantena in Asia è molto diverso da quello che vige in Europa: quella introdotta da Singapore e Hong Kong è una delle più lunghe e severe. Tutte le persone in arrivo dall’estero devono trascorrere tre settimane in un albergo selezionato dal governo all’atterragio, a proprie spese, senza possibilità di uscire dalla stanza e, in molti casi, nemmeno di aprire la finestra. Se poi si risulta positivi al test effettuato prima della fine del soggiorno, scatta un’altra quarantena in una struttura governativa o in ospedale.
Un esercizio costoso, spesso difficile a livello psicologico, che ha senza dubbio scoraggiato molte persone a volare, limitando così i rischi di diffusione del virus. Si guarda alle statistiche, ma non si pensa che nemmeno i prigionieri sono tenuti per 21 giorni in una cella senza l’ora d’aria, a meno che siano criminali particolarmente pericolosi. Vien da chiedersi se chi implementa queste misure, le abbia provate sulla propria pelle.
Forse no, perché le eccezioni sono innumerevoli, le chiamano prove di apertura. Ci sono i permessi speciali per gli uomini d’affari, che arrivano in città per incontri considerati importanti, senza sottostare al confinamento. C’è anche un numero ristretto di CEO, definiti chiave per l’economia, che ha un lasciapassare esclusivo e può spostarsi in tutta la regione senza doversi isolare al rientro. Ci sono poi i grandi eventi internazionali, che portano prestigio a Singapore: se il World Economic Forum previsto per agosto è stato annullato, altre riunioni internazionali sono in programma e i delegati, seppur testati e limitati nei loro movimenti, non dovranno sottostare all’isolamento imposto ai comuni mortali. Nulla di sorprendente, ma non un dettaglio quando al resto della popolazione si chiedono pazienza e sacrifici per chissà quanti altri mesi a venire.
La chiusura dei confini ha separato molte famiglie per mesi e continua a farlo, ha impedito a molte persone di partecipare ai funerali dei propri cari, ha costretto le ditte a rinunciare all’assunzione di impiegati, altri a scegliere tra la famiglia e il lavoro. Le conseguenze sociali ed economiche sono enormi. Dietro alle statistiche ci sono storie umane, che non possono essere ignorate per sempre, nemmeno in quei paesi d’Asia dove è forte il senso di responsabilità civile, dove è proibito scendere in piazza a protestare, dove la stampa non sfida chi decide, dove l’opposizione ha poche possibilità di far sentire la propria voce.
Le autorità di Singapore invitano i cittadini a vaccinarsi, ma sottolineano che il vaccino non è la soluzione e che le restrizioni resteranno. Difficile quindi immaginare che gli scettici, non pochi tra la popolazione locale, siano incentivati a farsi inoculare, anche se il messaggio è chiaro: la variante Indiana è più aggressive, anche sui bambini. L’India è vicina e con i suoi 400 mila contagi al giorno fa paura, ma anche nei paesi che hanno saputo limitare i rischi, la perdita di sostegno popolare, di fiducia, di impieghi, sono realtà pressanti.
Solo per fare un esempio, il blocco delle frontiere australiane costa al paese 155 milioni di franchi al giorno in termini di attività economica persa. E Canberra non intende riaprire fino ad almeno metà 2022.
Convivere con il virus è un concetto controverso, ma numerosi esperti della regione sottolineano che se le economie asiatiche vogliono evitare di restare isolate quando il resto del mondo aprirà, dovranno rivedere le proprie strategie e preparare la transizione verso un mondo in cui il Covid sarà endemico. Riaprire le dogane in modo sicuro è la grande sfida, che molte nazioni asiatiche hanno deciso di rimandare.
Non aiuta il lento lancio dei vaccini in Asia, dovuto anche alla lontananza geografica che ne rallenta la distribuzione, ma il sentimento è che molti governi non sappiano come uscire dal loro approccio di “zero tolleranza”. Cambiare tattica non è una sconfitta, ma un’evoluzione che prende in considerazione le implicazioni di una crisi che dura nel tempo e che muta, come le esigenze e l’impatto sulle persone dietro alle statistiche.
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