L’«antiamericanismo» è questione di «valori» e di «mutata sensibilità etica»?
Cercare di spiegare il presente senza ricorrere a categorie derivanti dalla spuma di superficie delle scelte politiche
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Cercare di spiegare il presente senza ricorrere a categorie derivanti dalla spuma di superficie delle scelte politiche
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• – Raffaella Carobbio
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• – Silvano Toppi
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• – Orazio Martinetti
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• – Libano Zanolari
Cercare di spiegare il presente senza ricorrere a categorie derivanti dalla spuma di superficie delle scelte politiche
Qualche giorno fa ci è toccato leggere sul «Corriere della sera» che quella che si combatte in Ucraina è una guerra tra «potere occidentale» come filosofia della libertà e «potere orientale» come filosofia del dispotismo. Una glorificazione della Nato, l’ho ricordato in un recente intervento su «Naufraghi/e», identificata con lo «spirito a cavallo» evocato da Hegel. La filosofia dalla scala di servizio.
In questi giorni, sempre sul «Corriere», ci tocca leggere che i critici di questa rappresentazione sono pervasi da un antiamericanismo che non tiene conto del «sistema di valori» incarnato da un’America ontologicamente first (A Polito, 23 febbraio). Le «risorse naturali», il controllo sulle filiere internazionali della creazione di ricchezza, veri e solidi «valori» per il rigoglio del «giardino occidentale» (L. Kamel, «il manifesto», 5 marzo), non sono degne di essere citate quando in gioco c’è la lotta tra il Bene e il Male.
Ci tocca anche leggere che l’opposizione alla politica Nato d’intervento in Ucraina è frutto di una «mutata sensibilità etica», di «un altruismo perduto» (E. Galli della Loggia, 27 febbraio). La storia dalla scala di servizio. Chi ha un po’ di dimestichezza con la letteratura di storia socioculturale relativa alla Grande guerra, ai modi in cui si è combattuta sulla carta e non solo nelle trincee, trova nella diffusione iperbolica di parole altisonanti ispirate ai suddetti principi assiomatici, un’atmosfera già vissuta nel clima della catastrofe che apre il secolo XX.
Genesi e svolgimento della I guerra mondiale sono i luoghi dove trovano conferma e nuova linfa analisi di altissimo livello (Hobson, Hilferding, Luxemburg…) sulla configurazione dell’imperialismo in quella fase storica. Sul rapporto tra nazionalismi, (nuovi micro, vecchi macro) e le tendenze conflittuali tra i modi di accumulazione dei diversi capitalismi. Per dirla con Labrousse, tra congiuntura e struttura. L’unico metodo serio per la comprensione, anche politica, dell’evento in corso.
Poi, dopo che l’invasione austro-ungarica della Serbia avrà dato inizio alla catastrofe, la giustificazione ideologica sarà dominante nella pubblicistica delle potenze coinvolte. Ed allora si dovrà ricorrere all’empireo dei grandi e nobili ideali. La Francia invocherà la difesa della sua Civilisation minacciata dal militarismo tedesco. La Germania la difesa della sua Kultur minacciata a occidente dalla Civilization francese ed a oriente dalla barbarie asiatica della Russia. La Russia la difesa della sua specificità slavo-ortodossa minacciata dal pangermanesimo. L’eterogeneità delle alleanze è dimostrazione evidente del carattere del tutto propagandistico del ricorso a categorie morali o astrattamente culturali. E la propaganda diventa momento consustanziale dell’attività bellica.
Marc Bloch, colui che nel pantheon degli storici del Novecento occupa, a mio parere, il primo posto, già nel 1921 rifletteva sulle logiche della propaganda e della creazione e diffusione di false notizie di guerra. «In questa materia, – asseriva – le osservazioni veramente preziose sono quelle che provengono da persone use ai metodi critici e abituate a studiare i problemi sociali».
Critica come funzione fondamentale della comprensione, critica tramite strumentazione tecnico-analitica densa di storia e di specificità intrecciate all’oggetto dell’indagine, critica necessariamente connessa alla dimensione pratico-trasformatrice. Critica come momento centrale di uno degli aspetti costitutivi della tradizione «occidentale». Non esiste, infatti, un solo «occidente».
La critica dell’economia politica, cioè l’analisi delle meccaniche del modo di produzione capitalistico, viene assimilata negli editoriali del «Corriere» a «critica, o addirittura [a] rifiuto, della democrazia parlamentare, considerato a ragione il regime politico ideale per lo sviluppo capitalistico» (Polito). Commentare l’aderenza di queste affermazioni alla realtà dei processi storici che innervano anche il nostro presente sarebbe imbarazzante.
La comprensione di una guerra in cui convergono elementi di tensione maturati in una dimensione temporale assai differenziata al proprio interno, in una dimensione spaziale che è quella mondiale, non può che passare attraverso l’indagine accurata della forma assunta dagli imperialismi (quello russo ben compreso) dopo la dissoluzione dell’Urss. Uno degli editorialisti cui ho fatto riferimento, quando, molto tempo fa, era ancora del tutto interno al «mestiere di storico», sosteneva che le temporalità caratterizzate dall’imperialismo non potevano essere spiegate concentrandosi su «processi di natura sostanzialmente politico-ideologica», ma che bisognava indagare all’interno dell’«inscindibile […] nesso capitalismo-imperialismo» (Galli della Loggia, «Quaderni Storici», 20).
Del resto di questo tipo di indagine egli aveva dato un esempio nella ricerca relativa a La fondazione della Banca italiana di sconto, pubblicato sulla «Rivista Storica Italiana». Uno studio dei migliori sull’imperialismo italiano, argomentato con taglio metodologico che non è diventato obsoleto. Oggi ecco di nuovo il ricorso a categorie etico-politiche.
Marc Bloch sarebbe assai severo con coloro che, accademicamente storici, spiegano il presente con categorie derivanti dalla spuma di superficie delle scelte politiche.
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