L’assalto al Campidoglio miccia della crisi americana
Un anno fa l’attacco dei sostenitori di Trump ai palazzi del potere statunitense: ultimo ma non definitivo capitolo di un modello politico-sociale già da tempo a rischio
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Un anno fa l’attacco dei sostenitori di Trump ai palazzi del potere statunitense: ultimo ma non definitivo capitolo di un modello politico-sociale già da tempo a rischio
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Un anno fa l’attacco dei sostenitori di Trump ai palazzi del potere statunitense: ultimo ma non definitivo capitolo di un modello politico-sociale già da tempo a rischio
Un grumo di risentimenti e paure, rabbia e vigliaccheria, irrazionalità e violenza spiccia. Che, poche decine di metri più in là, l’ancora presidente in carica degli Stati Uniti incitava a non fermarsi, a continuare la marcia su Capitol Hill, a invadere gli uffici di parlamentari traditori, “combattete, combattiamo come dannati” predicava, e “stop the steal”, fermate il furto. L’inesistente furto della vittoria elettorale di Joe Biden e dei democratici, certificata da giudici anche di nomina e fede trumpiana. Diverse inchieste e rivelazioni ci dicono un anno dopo che si trattò di un vero tentato golpe, con dettagliati piani predisposti nei due mesi precedenti, esponenti dell’OLD Party supinamente partecipi, putsch sostanzialmente fallito grazie a vertici militari dichiaratamente ostili e a un vice-presidente, Mike Pence, che rifiutò di “farsi Quisling”, cioè traditore. Sarà. Ma rimane l’impressione che dodici mesi fa, davanti agli occhi esterrefatti di mezzo mondo (quello più inconsapevole) si consumò più che altro l’ultimo e non definitivo capitolo di una crisi del modello socio-politico americano in atto da tempo.
“La città sulla collina”, come a lungo si è percepita l’America, cioè di civiltà mitica posta dal creatore a faro dell’umanità, ed eventualmente a sua dominatrice, ormai non brilla più da decenni. Rimane certo potenza economica e (in parte) militare. Il che non contrasta affatto con la crisi di democrazia, là dove la narrazione vincente è quella di cittadini che facilmente barattano libertà e capacità di giudizio su metodi e programmi di chi li governa con un benessere vero, presunto, o il più delle volte semplicemente promesso o agognato. La radicalizzazione del conflitto identitario, politico, ideologico; l’esasperazione dell’individualismo, delle disuguaglianze sociali, del degrado della classe media, degli sfacciati egoismi delle élite economiche, finanziarie e politiche; la crisi di equilibri istituzionali e di efficaci contropoteri (come la Corte suprema) che in realtà nemmeno i padri fondatori giudicavano eterni; la costante e lacerante discriminazione razziale; un meccanismo elettorale obsoleto, incrostato di secoli, superato dalle dinamiche di una moderna società. Una miccia lunga. Che, accesa da una presidenza scelleratamente divisiva, avrebbe provocato il botto dell’Epifania. Ma sulle macerie simboliche di quella deflagrazione, nulla si è minimamente ricomposto, minimamente risanato.
Anche dopo il 6 gennaio di un anno fa l’America rimane socialmente ‘il grande malato’. Proprio per questo, gli sforzi disordinati di Joe Biden, che aveva inaugurato il suo mandato con la promessa di rimarginare la grande ferita del “più grave attacco alla nostra democrazia”, sembrano già destinati all’insuccesso. Per i limiti mostrati dall’uomo, ma anche per una situazione incancrenita, che presuppone più capacità e più tempo per andare a una de-escalation. Mentre sulla ferita sempre aperta si accanisce Trump. Per nulla disposto al ristabilimento di equilibri e buone regole di cui sarebbe del resto la prima vittima, a meno che non sia la giustizia a fermarlo con un’esplicita condanna di sedizione o più banalmente di frode fiscale. È ancora lui il dominatore del campo repubblicano, lui che continua ad alimentare i sogni di rivincita di quel 90 per cento di suoi elettori che al ‘furto elettorale’ credono ancora, lui che ha già raccolto oltre un miliardo di fondi per la ‘reconquista’, lui che sta spingendo e finanziando propri candidati per il voto di ‘Mid Term’ il prossimo novembre, quando sarà rinnovata la Camera dei deputati e un terzo del Senato.
Voto che secondo i pronostici di oggi sarebbe favorevole al partito repubblicano: sia perché è tradizionalmente l’opposizione anti-presidenziale a trarre i maggiori benefici dalle elezioni di metà mandato, sia a causa di un Biden che, dopo il mezzo disastro afghano, è ora preso nella tenaglia di un’inflazione che inquieta i consumatori, a una campagna vaccinale non riuscita, a investimenti pubblici realizzati solo in parte e che dovevano essere invece la sua carta vincente. Non basta proporsi, e imporsi, come guida del mondo democratico; non basta la pretesa di mobilitare contro la Cina, nuovo competitore e sfidante sistemico; non basta denunciare il lavoro sporco di dirigenti repubblicani che in diversi stati operano riforme per mortificare e ridurre i voti delle minoranze (afroamericana in particolare); né basta aver schiacciato in un ruolo subalterno e silente la vice-presidente Kamala Harris, figlia dell’immigrazione, ma moderata e poco amata dall’ala radicale del partito democratico, promessa ma finora mancante astro nascente al vertice del governo. Qualcuno ha scritto che dodici mesi fa doveva cominciare l’anno che avrebbe cambiato tutto, ma che in sostanza non ha cambiato nulla.
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