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La pandemia sta cambiando rapidamente le aspettative dei lavoratori, che decidono sempre più di lasciare la loro occupazione per cercare impieghi più soddisfacenti o con maggiore libertà e flessibilità. È una conseguenza della minor importanza del lavoro nelle nostre vite, spiega l’Atlantic

Lasciare il lavoro per provare a realizzare il sogno di una vita è un desiderio che non si avvera, di solito. È un pensiero di molti lavoratori insoddisfatti. Ma mollare tutto per percorrere una strada più incerta è un’utopia che raramente si ha il coraggio di abbracciare.

Poi è arrivata la pandemia. E con la pandemia sono cambiati tutti i parametri.

“Non capisco, questo sistema ha sempre funzionato!”

Il mondo del lavoro è stato stravolto dagli eventi dell’ultimo anno e mezzo. Nuove incertezze, le difficoltà di chi era in attesa di un rinnovo o di una conferma, le complicazioni dovute a un regime di home working forzato, o il rientro in ufficio dopo aver trovato l’equilibrio in smartworking: sono tanti i fattori che hanno reso – per molti lavoratori – il vecchio posto di lavoro una realtà non più così appetibile.

Le conseguenze si vedono nei numeri. Solo negli Stati Uniti il 7% dei dipendenti del settore “alloggi e servizi di ristorazione” ha lasciato il lavoro ad agosto. Significa che un impiegato su 14 tra chi lavora in hotel, camerieri di ristoranti e barbieri ha detto “arrivederci a tutti” in un solo mese.

Gli “abbandoni”, come li chiama il Bureau of Labor Statistics, sono ancora in aumento in quasi tutti i settori. Ad aprile, il numero di lavoratori che hanno lasciato il lavoro in un solo mese aveva battuto il record di tutti i tempi negli Stati Uniti. Sembrava un mese eccezionale, a poco più di un anno dall’inizio dei lockdown. Invece era solo l’alba di qualcosa di più grande: a luglio quella quota è cresciuta ancora di più, ad agosto un nuovo record e c’è da aspettarsi che non sia finita qui.

I numeri e gli scenari sono simili anche in Europa, con le dovute proporzioni e ognuno con le sue peculiarità.

La Germania ha avuto il più alto numero di dimissioni legate al Covid-19 (quindi con motivazioni nuove, nate nell’ultimo anno o poco più) di tutto il continente, con il 6% dei lavoratori che hanno lasciato il lavoro – seguiti da Regno Unito con il 4,7%, Paesi Bassi con il 2,9% e Francia con il 2,3%. Il Belgio ha avuto il minor numero, con l’1,9%.

Un recente sondaggio del World Business Forum ha rilevato che nel Regno Unito e in Irlanda il 38% dei dipendenti aveva intenzione di lasciare il lavoro nei prossimi sei mesi o un anno.

L’ondata di dimissioni è una realtà ormai globale che ha già preso il nome di “The Great Resignation”, o “Big Quit”, e che è stata descritta da Derek Thompson in un lungo articolo sull’Atlantic: «Smettere è un concetto tipicamente associato a perdenti e fannulloni. Ma questo livello di abbandono sembra piuttosto un’espressione di ottimismo: quella di chi dice “possiamo avere di meglio”».

Durante il ‘900, nell’età d’oro del lavoro, molti hanno mantenuto la stessa occupazione per quarant’anni prima di andare in pensione. Ma già negli anni ’60 e ’70 lasciare il lavoro era diventato un sintomo di salute per l’economia, che dimostrava una discreta mobilità e apriva nuove possibilità per moltissimi lavoratori. «Dagli anni ’80, gli americani hanno smesso di meno e molti si sono aggrappati a lavori scadenti per paura che la rete di sicurezza non li sostenesse mentre ne cercavano uno nuovo», dice l’Atlantic.

Questo per quanto riguarda i lavoratori. Poi però ci sono i datori di lavoro e gli imprenditori. «Per i capi – si legge sull’Atlantic – che in epoca pre-pandemia vivevano lavorativamente situazioni molto favorevoli, questo momento dell’economia deve sembrare un caos totale, l’inferno dei manager. Le opportunità di lavoro sono schizzate alle stelle in molti settori. Molte posizioni sono vacanti da mesi».

Intanto le condizioni di base del lavoro vanno incontro a un grande reset: dalla primavera 2020 molte famiglie hanno visto stravolta la loro quotidianità, costrette ad adottare nuovi stili di vita e adattarsi agli spazi che cambiano.

Molte case sono diventate ufficio, scuola, palestra, cinema e ristorante in un solo luogo. È inevitabile che il nuovo equilibrio tra lavoro e vita privata non sia ancora stato trovato, e probabilmente l’incertezza e i cambiamenti repentini sono la nuova normalità che ci accompagnerà almeno per un altro po’. Quello che è certo è che in questa transizione, il lavoro stesso sembra perdere di importanza nel confronto con altre priorità.

«Eliminando l’ufficio inteso come presenza fisica nella vita di molte famiglie (ma non tutte!), la pandemia potrebbe aver declassato il lavoro come fulcro dell’identità. In effetti, la quota di americani che affermano di voler lavorare oltre i 62 anni è scesa al valore più basso da quando la Federal Reserve Bank di New York ha iniziato a porre la domanda, nel 2014», si legge nell’articolo.

Una regola non scritta delle crisi globali è che lasciano un segno imprevedibile nella storia.

«Non sembrava possibile che il grande incendio di Chicago del 1871 portasse a una rivoluzione nell’architettura, eppure, senza dubbio, contribuì direttamente all’invenzione del grattacielo che oggi caratterizza la città. È ugualmente sorprendente che una delle più importanti eredità scientifiche della Seconda guerra mondiale non avesse nulla a che fare con bombe, armi o fabbricazione: il conflitto ha accelerato lo sviluppo della penicillina e dei vaccini antinfluenzali. E tra gli effetti a lungo termine più salutari della pandemia dell’anno scorso c’è sicuramente la riconsiderazione del lavoro», scrive l’Atlantic.

Per riuscire a mettere i lati positivi della pandemia nella giusta prospettiva può essere utile considerare lo scenario opposto, in cui le nuove tendenze sono ribaltate: le dimissioni sarebbero a zero, le aziende più statiche, la densità abitativa dei centri cittadini schizzerebbe alle stelle (oggi c’è un discreto esodo urbano tanto negli Stati Uniti quanto in Europa). Sarebbe, in altre parole, un movimento di straordinario consolidamento e accentramento: tutti lavorano nelle aree urbane per vecchie aziende che non lasciano mai.

La realtà attuale invece ha una grande spinta centrifuga: verso le periferie, lontano dai vecchi luoghi di lavoro. «Prima della pandemia – è la conclusione di Derek Thompson sull’Atlantic – l’ufficio è stato per molti l’ultima comunità fisica rimasta, soprattutto perché la frequenza alla chiesa e l’appartenenza ai circoli sono diminuite. Ma ora anche i nostri rapporti d’ufficio si stanno disperdendo. “The Great Resignation” sta accelerando, e sta dando una svolta improvvisa alla vita di molte persone».

Le immagini non sono parte dell’articolo originale [ndr]






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