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Di Giulia Blasi, alfemminile.com

Ci vorrà tempo per capire cosa sia davvero successo a casa del presidente del Senato Ignazio La Russa, e per verificare se le accuse mosse a suo figlio Leonardo Apache siano fondate. Al momento in cui scriviamo, abbiamo questo: una donna di ventidue anni, ex compagna di scuola di Leonardo La Russa, lo ha incontrato durante una serata in discoteca. I due si sono salutati, lei ha bevuto uno o due cocktail, e da quel punto non ricorda niente fino alla mattina dopo, quando si è svegliata a letto con La Russa junior, che le avrebbe detto di avere avuto con lei un rapporto sessuale, e come lui anche l’amico che dormiva nella stanza accanto. La donna avrebbe poi parlato con un’amica, che le ha confermato di averla vista in stato confusionale e di avere tentato senza successo di portarla via, e con la madre, che l’ha accompagnata a farsi visitare all’ospedale Mangiagalli, dove le sono state riscontrate una ferita a una coscia e un’ecchimosi al collo. 

È una storia ancora tutta da verificare, in cui ci si districa fra i condizionali di quello che potrebbe essere successo e gli indicativi di quello che la donna, che ha sporto denuncia formale, è in grado di provare. Di sicuro è una storia che ci ripropone ancora una volta la necessità di una riflessione collettiva su cosa sia il consenso: perché Leonardo La Russa non nega di avere fatto sesso con la ragazza mentre lei era sotto l’effetto di stupefacenti, nega solo di averglieli dati o somministrati con l’inganno, minacciando querele a chi dovesse sostenere il contrario. Ne deriva che La Russa ha detto chiaro e tondo di avere avuto rapporti con una persona che in quel momento poteva non essere in grado di dare il consenso, né di ritirarlo anche avendolo dato in precedenza. Non opporsi, non gridare e non lottare non è consenso. Questo, se confermato, risponderebbe alla definizione corrente di “stupro”. Eppure succede e continua a succedere, proprio perché nella nostra cultura resiste l’idea che una donna che assuma sostanze che abbassano o annullano le sue difese possa biasimare solo sé stessa se le succede “qualcosa”. Come se lo stupro fosse un evento atmosferico, e non una scelta di violenza operata da una persona ai danni di un’altra persona.

Se il caso La Russa ci pare familiare è perché l’abbiamo già visto in cronaca più volte e in altri contesti: il caso di Ciro Grillo, rinviato a giudizio insieme a un gruppo di amici con l’accusa di violenza sessuale e stupro di gruppo, è simile nelle modalità e anche nella reazione del genitore celebre di riferimento, che difende la prole (nel caso di Grillo, con una certa veemenza e facendo appello proprio all’idea che la ragazza se la sia cercata). Nel caso Grillo, tra l’altro, il processo è a rischio a causa del trasferimento di uno dei giudici competenti. Allora come ora, al caso di cronaca c’è sempre chi risponde con la solita litania delle false accuse di stupro che rovinano la vita di poveri innocenti, un fenomeno talmente irrilevante da non essere misurato a livello statistico, ma che viene utilizzato da alcuni studi di avvocati per farsi pubblicità e cercare clienti fra gli uomini denunciati per abusi sessuali: provate a cercare “false accuse di stupro” su Google.

Distinguiamo, quindi, i piani. Il sesso prevede la reciprocità e il consenso: è una cosa che si fa insieme, ed entrambe le parti devono essere lucide e in grado di dire “sì” o “no” e di partecipare in ogni momento, o ritirare la partecipazione se dovessero cambiare idea. Questa è la formula di base per una sessualità soddisfacente, non ce n’è un’altra: qualunque alternativa a questo scenario costituisce abuso. Chi impone un rapporto sessuale a una donna non in grado di esprimere quel consenso sa benissimo di compiere un abuso: l’abuso è parte del divertimento. La sopraffazione è il punto, non certo il sesso. Poter disporre del corpo di qualcuno che non si può difendere è il punto.

Se non abbiamo chiari questi concetti di base, è impossibile discutere di qualsiasi cosa: e chiunque sostenga che una donna che ha bevuto o ha assunto droghe sia responsabile del suo stupro è come minimo complice di quella che chiamiamo – a buona ragione – “cultura dello stupro”, come massimo un pericolo per le donne che ha intorno, perché è chiaro che si è già costruito nella testa l’assetto necessario allo scarico di responsabilità: non sono io, era lei. In questo, sarebbe aiutato dalla sostanziale impunità che tutela gli stupratori: la stragrande maggioranza delle violenze sessuali non viene mai denunciata, per paura, per vergogna o perché appunto, non esiste nella nostra legislazione una definizione chiara e inequivocabile di “consenso” che sgomberi il campo dalle interpretazioni fantasiose.

Le famose “false accuse” di stupro, per giunta, rappresentano da sole un concetto controverso. Se da un lato non è da escludere che qualcuna ci abbia provato – le donne sono esseri umani: hanno limiti, fanno errori e possono essere anche immature, cattive e vendicative – è anche vero che in quel numero, già esiguo, è facile fare rientrare anche tutte le denunce fatte e ritirate per paura o vergogna o per pressione sociale, le denunce non fatte perché erano già decorsi i termini per la presentazione (dodici mesi, secondo l’ultima riforma: pochi, anche se il doppio dei sei mesi previsti in precedenza), quelle archiviate perché la vittima non avrebbe avuto un comportamento coerente con quello di una donna violentata, e quelle in cui si va a processo e chi denuncia perde sempre per un’idea distorta di consenso. Ognuno di questi esempi ha almeno un caso di cronaca corrispondente negli ultimi vent’anni, ma nessuno può essere tecnicamente definito una “falsa accusa” di stupro. 

È più facile, invece, che una donna che ha subito un abuso non se la senta di andare a processo per non dover affrontare il trauma della vittimizzazione secondaria, oppure che non venga ascoltata o presa sul serio perché è stata vista conversare con l’abusante, o avrebbe comunicato con lui tramite messaggi di testo dopo l’accaduto, entrambi comportamenti che sono normalissimi per le vittime di abusi sessuali. Il tentativo di dirsi “non è successo niente”, la vergogna, la rimozione e il senso di colpa possono portare a risposte non coerenti con l’idea della stuprata lacera e straziata delle foto stock acquistate dalle redazioni per illustrare i casi di violenza sessuale. Anzi: la maggioranza delle donne che subisce un abuso sessuale ha un aspetto normale, e a volte non ha nemmeno la piena coscienza dell’abuso subito. Il trauma, però, prima o poi riaffiora: e a quel punto è tardi per chiedere giustizia. La quasi totalità degli stupratori la fa franca così, semplicemente aspettando che passi il tempo.

Non sappiamo come finirà la vicenda La Russa, ed è ovvio che qualunque sia la verità andrà accertata e verificata con il massimo del rigore. Ma cominciamo da qui, dall’idea che no, non esiste il consenso con qualcuno che non te lo può dare, e che nel dubbio è meglio astenersi, lasciare perdere. Sempre che uno sia in buona fede. Altrimenti è uno stupratore. Lo sa lui, e dovremmo saperlo anche tutti noi.

Nell’immagine: Giambologna, “Ratto della Sabina” (1583)






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