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Federico Franchini
Federico Franchini
Le lezioni della sentenza contro Credit...
• 1 Luglio 2022 – Federico Franchini

Credit Suisse è stata condannata dal Tribunale penale federale (TPF) per non avere impedito il riciclaggio di diversi milioni di franchi da parte di una potente organizzazione criminale bulgara. La notizia era attesa e ha fatto subito il giro del mondo. A Bellinzona, alla lettura della sentenza lo scorso 26 giugno, erano presenti giornalisti provenienti da tutta la Svizzera, in rappresentanza anche di testate internazionali come Bloomberg e Reuters. Non capita certo tutti i giorni di vedere, in Svizzera, una grande banca sanzionata da un tribunale. Certo, a dicembre vi era stata la prima condanna in assoluto per un istituto bancario: ma vuoi per il nome della banca (Falcon Bank), vuoi per i fatti in questione (vicenda legata alle azioni della banca italiana Unicredit) il caso è stato di minore importanza. 

Credit Suisse è invece la seconda più importante banca della Svizzera, simbolo del capitalismo finanziario elvetico e delle sue derive. L’istituto era stato utilizzato dalla banda del boss Evelin Banev per riciclare decine di milioni di euro provenienti dal traffico internazionale di droga. Soldi che venivano depositati anche in contanti sui vari conti aperti dalle società offshore controllate dallo stesso Banev. Anche quando quest’ultimo – condannato in vari Stati e responsabile di vari omicidi – era finito sotto inchiesta in patria e su tutti i giornali bulgari, a Zurigo si è continuato a trattare i suoi soldi come se nulla fosse. 

La condanna è senza dubbio un fatto importante: due volte sue due, l’accusa contro un’impresa per violazione dell’articolo 102 del codice penale – la norma che permette di condannare una persona giuridica che, per la sua carente organizzazione, non ha potuto impedire reati quali il riciclaggio o la corruzione – ha passato l’esame del tribunale. Certo, sia nel caso Falcon che Credit Suisse le banche hanno ricorso e occorrerà attendere la decisione del Tribunale d’appello. Ma le altre banche (comprese le sei già oggi sotto indagine) sanno che davanti ai giudici si può perdere. In passato, le imprese condannate penalmente passavano tramite un decreto d’accusa: ossia una sorta di accordo concordato tra le parti lontano da occhi indiscreti. La vicenda Credit Suisse ha quindi anche un altro vantaggio: quello della trasparenza. Andare a processo significa attirare l’attenzione dei giornalisti, i quali possono assistere ai dibattiti e consultare l’atto d’accusa. Un modo di procedere, insomma, più consono alla gravità di queste vicende che non meritano certo di essere risolte a porte chiuse.

L’affare Banev, però, mette anche in luce le debolezze tanto delle misure preventive che di quelle repressive della Svizzera. La prima cosa che il giudice ha ribadito durante la lettura della sentenza è che l’inchiesta ha violato il principio della celerità della procedura. Siamo a giugno 2022 e l’inchiesta è scattata nel febbraio 2008; i fatti risalgono al periodo tra il 2004 e il 2008. Già in apertura dei dibattimenti, la Corte ha stabilito che i fatti precedenti al giugno 2007 non sarebbero stati considerati in quanto prescritti. Per questo, le pene sono state notevolmente ridotte. Giustizia è stata fatta” ha dichiarato all’uscita, la procuratrice federale Alice de Chambrier. Ma una giustizia così lenta non è giustizia. Anche perché così si rischia di distruggere la vita delle persone, siano esse colpevoli o meno. Il giudice ha detto chiaramente che questa lentezza ha influito sulla salute dell’ex-dipendente di Credit Suisse condannata: sotto inchiesta da troppi anni la donna è gravemente malata a causa di un procedimento che infine ha portato ad una pena detentiva e pecuniaria sospesa. Certo è che il suo ex-datore di lavoro, Credit Suisse, ha fatto di tutto per ritardare l’inchiesta a suon di ricorsi procedurali. La tattica, per chi ha soldi da spendere nei migliori studi d’avvocatura di Zurigo e Ginevra, è ormai questa. 

A lasciare perplessi è anche l’ammontare della sanzione nei confronti della banca: 2 milioni di franchi, più un risarcimento di 19 milioni (ossia il denaro che è riuscito a sfuggire all’estero a causa della sua carente organizzazione). I giudici d’altronde non avevano molto margine. La pena massima prevista dalla legge per un’impresa che ha violato l’articolo 102 del Codice penale è di cinque milioni di franchi. Questa era anche il montante richiesto dall’accusa, ma considerata la prescrizione e la violazione del principio di celerità la Corte è stata obbligata a diminuirla. Per una banca che nel 2021 ha generato utili per quasi 23 miliardi di franchi, pagare qualche milione non è nulla. Il danno semmai è d’immagine. Negli USA, ad esempio, ai fondi pensione è vietato fare affari con società che sono state condannate per reati penali: la condanna stabilita a Bellinzona potrà quindi avere delle conseguenze. 

La pena massima di 5 milioni di franchi è da tempo criticata dagli esperti sia in Svizzera che a livello internazionale. In altri Stati come gli stessi Stati Uniti, l’Olanda, il Lussemburgo o Singapore le multe contro le banche raggiungono le centinaia di milioni di franchi. Questo discorso vale anche per le procedure amministrative condotte dalla FINMA: l’autorità di vigilanza ha aumentato in questi anni le inchieste, ma non può multare una banca; può solo confiscare gli utili conseguiti illecitamente. Se la Svizzera vuole smettere di mantenere il suo status di centro finanziario per la criminalità economica come successo con l’organizzazione di Evelin Banev, deve cambiare subito questo approccio. In questo senso, in Parlamento giace da fine anno scorso un postulato che chiede di dotare la FINMA di “strumenti solidi per perseguire efficacemente i reati”. Vedremo quale sarà l’esito politico di tale richiesta.






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