L’insopportabile disonestà del calciatore
Pochi ammettono il fallo: pessimo esempio per i giovani
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Pochi ammettono il fallo: pessimo esempio per i giovani
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Pochi ammettono il fallo: pessimo esempio per i giovani
È proprio una questione di principio: sono rarissimi i calciatori che accettano di essere puniti per un fallo, che ammettono di aver infranto una regola. Appunto: «la regola per me non vale, come osate toccarmi?». La regola diventa negare l’evidenza, protestare a prescindere.
Prendiamo ad esempio il nostro Widmer, uno dei migliori al mondo nel suo ruolo; nelle interviste si presenta come un timido chierichetto, gentile, affabile, mai sopra le righe. Contro la Serbia nella prima mezz’ora soffre terribilmente Kostic, che al 15’ gli va via e punta a rete: Widmer fa quel tipo di fallo che gli inglesi chiamano ‘professional’ e noi ‘di mestiere’. Un fallo, e magari un cartellino giallo, «ben speso», dicono i commentatori. Ci stava. Il piccino segue attentamente, pronto anche lui a fare come il campione.
Narra un collega che il figlio undicenne, collocato in un club noto per la formazione dei giovani, mette la mamma nell’angolo del salotto, il papà davanti al televisore e mostra la lezione imparata: «io non devo guardare la mamma che batte il calcio d’angolo, men che meno la palla: devo guardare solo il mio uomo, il papà; lo devo afferrare, strattonare, ‘cinturare’, placcare». Appunto. L’area di rigore è un porto franco in cui succede di tutto. Per fortuna in questi mondiali gli arbitri si avvicinano e minacciano di sanzionare i calciatori che non rispettano la regola fondante del football, separato dal rugby l’8 dicembre 1863, alla “Freemasons’ Tavern” di Londra: no foot-ball player shall use his hands to push or pull his adversary. Le mani non si usano né per spingere né per tirare (per la maglia) l’avversario. A voi rugbisti mani e piedi, a noi calciatori solo i piedi.
Ma torniamo al nostro Widmer: quando Kostic lo supera prima lo ‘cintura’ ai fianchi; non basta. Alza una mano a livello del collo e tenta una mossa vicina allo strangolamento. Kostic sfugge ancora; a questo punto Widmer lo ‘affossa’ spingendo e sgambettando. L’arbitro argentino Repellini ferma il gioco. Widmer lo affronta minaccioso, tenta di intimidirlo: il linguaggio del corpo è chiaro: come osi! Io non ho fatto nulla. Arriva il cartellino giallo. Per fortuna Widmer se ne va senza troppe storie.
La prima mossa del calciatore preso in fallo è il riso beffardo, come dire: «non capisci nulla, non era fallo». Sul maxi-schermo e a casa si rivede la scena, un classico del calcio moderno: uno spintone a due mani, mani che sono subito alzate: «sono innocente come un agnellino, non ho fatto nulla, le mani non erano mie». Nell’entrata a gamba tesa, in gioco pericoloso, il calciatore arriva a stravolgere le forme euclidee dichiarando sferici tibia e perone, mimando con le mani la rotondità del pallone: ma certo lui ha colpito la palla non lo stinco o la caviglia.
I suoi compagni sono solidali, disonesti quanto lui. In 4-5 attorniano l’arbitro, cercano di influenzarlo, di impaurirlo. Il fatto è che non se ne possono ammonire, o magari espellere, quattro, ma almeno uno, il più arrogante, sì. Quando la palla esce a lato entrambe le parti, con uguale isterismo, reclamano la rimessa in gioco; quando esce a fondo campo, il difensore dice che l’ultimo a toccare è stato l’attaccante, l’attaccante dice che è stato il difensore. Nessuno, anche se è ben conscio del fatto, ammette l’evidenza. Lo scopo è sempre lo stesso: influenzare arbitro e collaboratori, avere sempre ragione.
Nelle corde del calciatore c’è anche la capacità di trasformarsi in tragicomico attore. Spesso, appena toccato, cade ‘come corpo morto cade,’ urlando nemmeno fosse stato pugnalato; salvo rialzarsi, allegro come un grillo, se l’arbitro non è caduto nel trabocchetto: Lazzaro risorto.
La situazione non è diversa nelle nostre divisioni regionali, e persino a livello giovanile: il campione è un esempio. Plagia grandi, grandicelli e piccini. Sui campi del calcio minore spesso intervengono anche genitori, parenti e amici; il loro campioncino in erba non ha commesso fallo, come si permette, arbitro cieco e venduto?
Il calciatore, che ora ha pure preso sistematicamente e schifosamente a sputare per dimostrare il suo status speciale, il suo diritto alla trasgressione, si direbbe faccia una gran fatica a liberarsi dell’anatema storico di Shakespeare, che in ‘Re Lear’, in cerca di un insulto supremo, definitivo, fa dire al Duca di Kent un «you base (spregevole) football-player». Prima aveva definito il servo infedele Oswald «slave», schiavo, «whoreson dog», cane ‘fijo de na mignotta’, «rascal», farabutto. Ma non bastava, bisognava trovare qualcosa di peggio: si poteva scovare solo nel gioco del football, che allora non aveva regole, in simbiosi con la sfera, una vescica di maiale riempita di setole (di maiale) e di capelli umani, da trasportare con ogni mezzo da un villaggio all’altro; sino al ‘fair-play’ introdotto dal rettore del collegio di Rugby, il teologo Thomas Arnold, 200 anni fa.
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