Sdraiato su un letto al pronto soccorso ho visto il lato bello della sanità pubblica
Da una barella è più facile apprezzare i pregi di un sistema solidale e democratico sempre più minacciato
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Da una barella è più facile apprezzare i pregi di un sistema solidale e democratico sempre più minacciato
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Da una barella è più facile apprezzare i pregi di un sistema solidale e democratico sempre più minacciato
Per mettere a fuoco un oggetto, a volte è sufficiente cambiare inquadratura. Per capire fino in fondo la trappola del liberismo spinto, basta assumere la posizione supina; lasciare per qualche giorno la tribù dei Verticali ed entrare in barella in un pronto soccorso. In un ingorgo di lettighe in attesa, aspettando il mio turno nell’ospedale di Trieste, ho assistito torcendo il collo allo spettacolo di un esercito di medici, infermieri e personale sanitario sfinito dai turni e travolto da una perenne emergenza, che, nonostante tutto, non mi faceva sentire un numero, si preoccupava di me, mi chiamava per nome senza conoscermi. Una confraternita dell’accoglienza davanti alla quale non ero un cliente ma venivo investito del rango di cittadino avente diritto.
Da orizzontale, avvertivo la miracolosa tensione positiva che quel caos infernale riusciva non so come a esprimere. In un momento in cui l’Europa lasciava morire in mare migliaia di innocenti e tirava attorno a sé linee di filo spinato, sentivo di essere approdato a un porto protetto che non andava mai in vacanza, funzionava 24 ore su 24, 365 giorni all’anno e non poteva respingere nessuno. Il monumento a un sistema solidale, universalistico, che non fa distinzione di reddito, razza e provenienza. La negazione della cultura dello scarto. È solo quando ti scopri inerme che capisci. Nel primo camice bianco, verde o azzurro che ti si avvicina, vedi lo Stato nella sua massima espressione, la società di diritto che ci è costata tante battaglie. E quella sera, in pronto soccorso, mentre la presidente del consiglio parlava delle tasse come «pizzo di stato», sentivo crescere in me l’orgoglio patriottico di tenere in piedi, pagando quelle tasse, sistemi che garantivano la civiltà del mio Paese — scuola, strade, sicurezza, ospedali — e la voglia di lottare per difenderli. Ero spiaggiato su una battigia dove la tempesta spingeva centinaia di vite, ma a differenza di un migrante mi sentivo accolto da un presidio di umanità, libertà, equità, solidarietà. Una trincea di resistenza alla liquidazione del welfare, oltre che alla mercificazione della vita.
Era appena arrivata la notizia che la Regione Friuli-Venezia Giulia, dopo aver annunciato un forte incremento di spesa in favore della sanità privata, bloccava le assunzioni del personale socio-sanitario pubblico e il turn-over per decine di amministrativi del settore a Trieste e Gorizia. Mi chiedevo: chi avrebbe fatto il loro lavoro? I medici? Gli infermieri? Come coniugare, in quelle condizioni, l’assistenza, la tecnologia e l’umanizzazione delle cure? Come meravigliarsi che i tempi di attesa per gli esami di malattie anche gravi si stiano allungando a dismisura, favorendo il privato e abbandonando al loro destino i malati non abbienti?
Dalla mia postazione distesa pensavo: come possiamo essere complici di un simile smantellamento? In poche ore ero stato preso in cura da un affascinante sistema complesso: un laboratorio di analisi che aveva lavorato con controlli di qualità, la Radiologia, l’ortopedico, l’anestesista, il chirurgo, gli infermieri di reparto, quelli di sala operatoria e quelli della recovery room, poi di nuovo il reparto, i fisioterapisti, gli operatori socio-sanitari, gli addetti alla pulizia. Decine di professionisti, spesso mal pagati, talvolta demotivati, che il settore privato convenzionato è pronto a portarsi via in qualsiasi momento offrendo talvolta stipendi migliori. Ero appena tornato dalla Germania con una pessima sensazione. Ore di ritardi dei treni, coincidenze saltate, aeroporti in tilt: avevo vissuto il crollo di un mito, quello di un sistema trasportistico modello nel cuore del Continente. Amici francesi nel frattempo si lamentavano con me per lettera del collasso di un sistema sanitario pubblico disumanizzato («En France il vaut mieux ne pas tomber malade»), mentre mail sconsolate da Madrid descrivevano scuole a pezzi, con insegnanti aggrediti da genitori o allievi fuori di testa. Il sistema Thatcher, che aveva portato l’Inghilterra alla rovina, trionfava e faceva danni ovunque.
Spinto da un barelliere, viaggiavo per corridoi e stanze illuminate al neon, seguendo una linea a zigzag di soffitti, non di pavimenti, mentre camici di diverso colore si affacciavano nel mio campo visivo dall’alto, come dall’orlo di un pozzo. Eppure, quanto più lucidamente vedevo il mondo da quella posizione svantaggiata. Sentivo che l’Europa tutta, distratta dagli eventi in Russia e Ucraina, era sotto attacco nelle sue conquiste più sacre, mentre la gente non votava più o, peggio, votava proprio gli smantellatori del welfare.
Nelle insonnie d’ospedale, sentivo nel buio il sordo rosicare di un tarlo che corrodeva le fondamenta di quel mondo. Tutto appariva chiaro: bastava star lontani per un attimo da un bombardamento mediatico ormai governato dai like e non del peso reale dei fatti, dove tutto — persino la canonizzazione di Berlusconi o il crepuscolo di Putin — assumeva contorni di tragicommedia e dove la mobilitazione per salvare cinque turisti ricchi in cerca del Titanic surclassava scandalosamente quella per i 700 naufragati nell’Egeo.
Emergenza immigrazione, non si parla d’altro. Ma senza stranieri la macchina sanitaria si ferma. Anche questo appare più evidente al malato che al sano. In Ortopedia incontri sanitari serbi, caraibici, argentini, africani del Camerun, orchestrati in un ensemble capace di coniugare efficienza, puntualità e buon umore, fondamentale per il morale del malato. E poi gente di tutt’Italia, con storie personali e familiari diversissime, con la fatica di percorsi di inserimento da seguire e ventagli di competenze da acquisire. «Per non parlare — mi dicono — delle giovani professioniste che sono anche mamme, con affitto, mutui e figli che crescono, che sarebbe bello studiassero a lungo, perché la cultura rende liberi».
Problemi? Certo che ci sono, riconosce un medico. «Affrontarli in emergenza non aiuta. Alcune rigidità organizzative sono un problema. Un processo di informatizzazione inadeguato che non rende immediato individuare le inefficienze e i rischi e che Getty Images costringe operatori esausti e frustrati a compilare a penna chili di carte, i cui contenuti non sono poi sempre fruibili. Programmi di miglioramento basati su indicatori parziali e asimmetrici che, partendo dagli effetti finali e non dalle cause, allungano i tempi d’attesa in pronto soccorso o per interventi urgenti».
Il privato accreditato è il diavolo? «No. È complementare, ed è direi indispensabile dentro canoni di monitoraggio costante. Ma non può però essere un’insidia per la sopravvivenza del pubblico, perché è nel pubblico che l’equità e la solidarietà si esprimono sempre. È nel pubblico che l’urgenza e l’emergenza dovranno continuare ad avere risposte qualificate, tempestive, tecnologicamente avanzate in organizzazioni efficienti armoniche serene e umanamente attente». Quanto si impara in un luogo come la corsia, che si sottrae alla privatizzazione del tempo, resiste alla tirannia degli algoritmi, e ti spalanca il varco più diretto di accesso all’Uomo in un laboratorio di relazione unico, al punto che talvolta i degenti sembrano più vitali dei sani. Uno spazio chiuso dove nasce un cameratismo nuovo, dove chi sta meno male sente la responsabilità di chi sta peggio, non per altruismo ma per un senso di sopravvivenza che non può essere che solidale. La notte specialmente. Un temporale imminente che propaga di stanza in stanza un’onda di lamento e di inquietudine. Un vicino di letto che bisbiglia versi di Virgilio in latino per vincere il dolore. Un mucchietto di ossa fasciate di bianco da cui esce un braccio che cerca di afferrare in alto qualcosa che non c’è. Il letto accanto al tuo che viene portato via in silenzio perché lì c’è qualcuno che ha le ore contate.
A volte la solidarietà nella confraternita dei Distesi fa sì che ci sia più sorriso in corsia che fuori. A volte accade che i Verticali che approdano al capezzale dei degenti appaiano dei visitors balbettanti, capaci a malapena di magre parole di circostanza, con un occhio incollato allo smartphone e soprattutto impossibilitati a immaginare se stessi malati, distesi a loro volta su un lettino e quindi capacissimi (come è accaduto in Lombardia e Friuli) di rivotare i demolitori della sanità pubblica pronti ad alzarsi gli stipendi e a finanziare iniziative megalomani tagliando la spesa corrente.
Nell’immagine: “Out…”, scultura di Zarko Basheski
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