Il Tribunale penale federale (TPF) ha ordinato all’Ufficio federale di giustizia di emettere un mandato d’arresto internazionale nei confronti dell’ex vicepresidente siriano Rifaat al-Assad in relazione all’inchiesta avviata contro di lui in Svizzera per il suo presunto ruolo nei massicci crimini di guerra commessi nella città di Hama nel 1982. La notizia emerge da una sentenza del luglio del 2022, ma resa nota solo ora per potere garantire l’efficacia di questo stesso mandato d’arresto.
La decisione dei giudici di Bellinzona induce ad alcune riflessioni. Prima di tutto, però, ricordiamo i fatti. Dopo aver constato la sua presenza presso un lussuoso hotel di Ginevra, nel novembre del 2013 l’ONG TRIAL International ha denunciato al-Assad presso il Ministero pubblico della Confederazione (MPC). Lo stesso giorno viene così aperta un’inchiesta penale. I sospetti sono pesanti: in qualità di capo delle “brigate di difesa” dell’esercito siriano, l’uomo è sospettato di avere avuto un ruolo chiave nell’assedio e nell’assalto della città di Hama nel quale, nel febbraio del 1982, sono state uccise decine di migliaia di persone.
Dall’entrata in vigore degli Statuti di Roma (2011), la Svizzera può indagare nell’ambito di quella che viene definita giustizia universale. Quello nei confronti di Rifaat al-Assad è uno dei primi casi sottoposti alla Procura federale in questo ambito. È una vicenda che scotta, anche perché l’uomo è lo zio del padrone di Damasco Bachar al-Assad. Come criticato in seguito dalla stessa TRIAL International, l’inchiesta svizzera è andata avanti a rilento. L’allora Procuratore generale Michael Lauber si è sempre rifiutato di fornire mezzi adeguati a condurre un’indagine oggettivamente complessa. Sotto la sua conduzione, infatti, la Procura federale non ha certo messo tra le priorità il perseguimento di questi crimini. Nel 2015, la procuratrice incaricata del caso Assad – Laurence Boillat – è stata liquidata dallo stesso Lauber che le ha rinfacciato “una mancanza di visione strategica” proprio per la sua volontà di voler perseguire l’ex alto militare siriano.
Una volta dimessosi Lauber, le inchieste nell’ambito della giustizia universale sembrano oggi avere preso vigore come dimostrano la recente condanna dell’ex comandante liberiano Alieu Kosiah e il rinvio dell’atto d’accusa nei confronti dell’ex ministro dell’interno gambiano Ousman Sonko. Per il caso Assad, ecco che nel dicembre del 2021 – una volta dimessosi Lauber – l’MPC decide infine di emettere un mandato d’arresto internazionale nei confronti del “macellaio di Hama”. Quest’ultimo era appena fuggito dalla Francia, dove aveva vissuto fino a quel momento e dove è stato condannato a quattro anni di reclusione per vari reati economici.
Oggi l’uomo si troverebbe in Siria da dove difficilmente verrà estradato, anche se sembra non più essere in buoni rapporti con il regime. Ma a mettere i bastoni tra le ruote alla Procura federale non è tanto il sanguinario nipote Bachar quanto l’indecifrabile Ufficio federale di giustizia (UFG) che si rifiuta di emettere questo mandato. Le ragioni ufficiali di questo rifiuto – il fatto che Assad non è svizzero e non vi siano svizzeri tra le vittime – sembrano tuttavia piuttosto banali. Malignamente si potrebbe supporre che la Confederazione, tramite l’UFG, non abbia voluto esporsi da un punto di vista diplomatico emettendo un mandato di ricerca internazionale nei confronti di un parente di un capo di Stato.
La Procura federale si è comunque opposta a questa decisione ottenendo ragione su tutta la linea da parte del TPF. Una decisione importante, quella dei giudici di Bellinzona, anche perché conferma di fatto la competenza delle autorità elvetiche a perseguire Rifaat al-Assad, oggi 84enne. Peccato, però, come ci spiega Benoit Meystre, consulente legale di TRIAL International, che “sia stato necessario attendere il ritorno in Siria dell’uomo prima di richiedere la sua estradizione in Svizzera”.
La decisione di Bellinzona precisa anche qualche dettaglio della stessa inchiesta elvetica e il ruolo dell’uomo nella repressione della rivolta di Hama che avrebbe causato “tra le 10.000 e le 40.000 vittime”. Secondo la sentenza, che cita la richiesta d’estradizione dell’MPC, le forze d’élite guidate da Rifaat al-Assad “sarebbero andate di porta in porta per individuare i civili rimasti in città e li avrebbero giustiziati o sottoposti a vari abusi, tra cui detenzioni ingiustificate e atti di tortura”. Il suo coinvolgimento deriverebbe dal fatto che, in quanto comandante indiscusso dell’unità d’élite presente sul posto al momento dei fatti, al-Assad “aveva dato ordine ai membri delle forze di sicurezza di entrare a Hama e di “sgomberarla dai teppisti”, di trasportare tutti gli uomini di età compresa tra i 14 e i 65 anni nei centri di detenzione gestiti dall’unità d’élite e di uccidere gli eventuali sopravvissuti”.
Un massacro per ora impunito. A questo punto non resta che attendere un processo in Svizzera, seppur in contumacia: “A oltre quarant’anni dai fatti è più che mai necessario che l’indagine dell’MPC si concluda al più presto, in modo da poter celebrare un processo nel prossimo futuro” ci spiega ancora Benoit Meystre. Secondo l’esperto di TRIAL International, data l’età avanzata di Rifaat al-Assad, “ogni ulteriore ritardo rischia di privare le vittime di un processo volto ad assicurare loro giustizia”.
Nell’immagine: alcune delle 40’000 vittime del massacro di Hama