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Per le criptovalute bisognerebbe pensare a un divieto
Naufragi

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Silvano Toppi
Silvano Toppi
Per le criptovalute bisognerebbe pensare a...
• 9 Gennaio 2023 – Silvano Toppi

La Neue Zürcher Zeitung (29 dicembre) non sembra tenera con le criptovalute. Presenta una lunga intervista di Christof Leisinger alla nota giurista americana Hilary J.Allen ( conosciuta internazionalmente come grande esperta in diritto bancario, per i problemi della stabilità finanziaria e la regolamentazione delle nuove tecnologie finanziarie, consulente per varie istituzioni internazionali ed anche esperta per il Senato americano). Alcuni passaggi meritano di essere messi in rilievo.

Già l’attacco è onesto e deciso: “Ho ingenuamente e completamente sottovalutato quanto sia fraudolenta la scena delle criptovalute”. Bisognerebbe prendere seriamente in considerazione, sia per i danni monetari sia per quelli ecologici, un divieto. È realistico? Se i responsabili politici non riescono a farlo, dovrebbero almeno assicurarsi di non promuoverne la diffusione o di lasciarle avvicinare al nucleo del sistema finanziario. Assicurarsi poi che niente possa mai essere salvato con fondi pubblici.

Questi prodotti non dovrebbero essere in nessun modo regolati come i normali prodotti bancari, altrimenti avrebbero accesso alla Banca Centrale come salvatrice in ultima necessità e forse anche al sistema di protezione dei depositi delle banche. Mentre la regolamentazione bancaria dovrebbe invece servire a tenere le banche lontano e fuori dal business delle criptovalute.

La scena delle criptovalute non ha quindi nessun significato e nessun valore? Sì, esattamente così. L’unico scopo sembra essere quello di dare alle persone interessate la possibilità di fare scommesse. Si può quindi paragonare tutto questo a un casinò di Las Vegas? Sì, in una certa misura, ma il giocatore di Las Vegas è perlomeno sicuro che nessuno gli ruba le fiches sul tavolo. Nel senso che al casinò si è meglio protetti? Sì, e soprattutto si sa che si è impegnati in un gioco d’azzardo. La rappresentazione delle criptovalute sta alimentando la favola che anche le persone presumibilmente escluse dal sistema finanziario tradizionale potrebbero puntare sulla fortuna. Molti hanno creduto a questa storia e ora devono convivere con i danni.

Il quotidiano “La Regione” ha dedicato tre pagine (con un articolo di fondo) alle criptovalute (3 gennaio). Titolo di prima pagina, di lancio: “Monete digitali. Tra rischi e opportunità”. Che lascerebbe già capire che ci sono rischi, è vero, ma ci possono essere anche delle opportunità. Tutte da trovare, però. L’articolo di fondo di Alfonso Reggiani non manca di porre seri interrogativi alla città (o al municipio) di Lugano che ambisce a diventare la capitale delle criptovalute. Ad esempio; che cosa ha spinto un ente pubblico “a sostenere un comparto in odor di speculazione e perché intercettare proprio quel mondo fatto di criptoboys?” E ancora:”la connessione cercata con un mondo finanziario poco trasparente non appare in evidente contraddizione con le decisioni di sensibilizzare la popolazione sui pericoli e i rischi dell’eccessivo indebitamento?”. 

La conclusione, che estende la critica, è lapidaria: “Una scelta di campo che, del resto, non dovrebbe sorprendere più di quel tanto, perché è figlia di una politica che abbraccia il velato mondo della moderna e consumistica ricchezza, stendendo tappeti rossi ai ricchi, mentre tende a sollecitare il manganello contro chi osa contestare anche duramente le regole del sistema”.

Il popolo e il “rug pull” 

Qui potrebbero già insinuarsi due osservazioni. La prima riguarda la democrazia (o  il cosiddetto “popolo”, caro a certi movimenti politici dominanti che fanno e decidono quel che vogliono attribuendolo poi alla gente): che ne sa il popolo, ma, soprattutto, chi impone e chi “governerà”  o chi, se capita, sarà responsabile  per le conseguenze di una scelta del genere?

La seconda è una mistione non voluta di espressioni. La quale assume persino un senso divertente o canzonatorio. “Stende tappeti rossi ai ricchi”, la politica luganese. C’è una espressione inglese assai diffusa nel mondo delle crypto: “rug pull”. Che significa, invece, letteralmente: tirare il tappeto sotto i piedi a qualcuno. Per tradurla in termini comprensibili, è la truffa di coloro che, sviluppatori di un progetto cripto, si ritirano poi repentinamente dopo aver sgraffignato i fondi dei primi creduloni investitori.

Con il trucco del “tiratappeto” c’è chi ha calcolato perdite medie giornaliere di 7.67 milioni di dollari nel mondo delle crypto. Tutto sta quindi a vedere se ci saranno tappeti rossi per i ricchi, con profusione di criptovalute in via Nassa o non si sa dove come pretendono il sindaco e il Municipio o persino i commercianti, oppure se  ci sarà qualche “rug pull” nel palazzo di Piazza Riforma.

Se le banche diventano superflue

Il vero e importante discorso da farsi o interrogativo da porsi è comunque un altro e d’altra importanza. E non è tanto quello dei rischi che si corrono o delle opportunità che dovrebbero esserci. È singolare che la stessa inchiesta de “La Regione”, pur valida e interessante, non lo affronti.

Appaiono i fiduciari che, a quanto pare, hanno con intelligenza e onestà deciso di non occuparsi di criptovalute “sia per uno scetticismo nostro di fondo sia perché ci vogliono specifiche competenze anche informatiche che non abbiamo per garantire un effettivo controllo”. Ma le banche, la struttura bancaria luganese, che è fattore economico-finanziario determinante, che è contribuente essenziale e vitale, dove sono, che ne pensano, come si collocano, sono state interpellate dall’autorità o è stato preferito loro l’Ardoino di Tether o El Salvador di Bukele? 

In termini concreti: se finirà per essere sufficiente una connessione a internet e un portafoglio numerico per accedere a dei servizi finanziari, non sarà una indecorosa porta d’uscita per le banche, per le loro commissioni o spese di gestione, per gli intermediari e consulenti, per banchieri e bancari vari agli sportelli, per le giuste condizioni gestionali, amministrative e di controllo? Quanta sarà la probabile ulteriore disoccupazione bancaria, quanto il minor reddito da lavoro distribuito, quanto il minor introito fiscale?

Queste sono le domande sempre mancanti. Non è fantasia o esagerazione: sono le promesse (paradossalmente difese tempo fa  anche in Gran Consiglio, in maniera libertaria, senza che nessuno alzasse un dito per un dubbio), riassunte nell’acronimo DeFi (dall’inglese Decentralized Finance). Questo sistema, più o meno alternativo dei servizi finanziari si è appunto sviluppato nel solco del mercato dei criptoattivi (criptovalute), grazie alla funzionalità della “blockchain” (parola ormai diffusa che, per la stragrande maggioranza, senza denigrare l’intelligenza di nessuno, è come la classica Araba Fenice, che ci sia ognuno lo sa, che cosa effettivamente sia pochi lo sanno dire).

La DeFi (pronuncia, ovviamente: di-fai) designa in maniera generica l’assieme dei servizi finanziari accessibili a partire dalla “blockchain”. Si presenta come un sistema finanziario alternativo e decentralizzato poiché, contrariamente al sistema finanziario tradizionale (quello, per dirla in termini semplici, delle nostre banche), non si fonda sul “terzo di fiducia” (appunto: una banca o una autorità centrale o lo Stato o persino la stessa Banca Nazionale, di cui ci si vuole invece liberare) per realizzare o mettere a punto una operazione finanziaria. Questa decentralizzazione dei servizi finanziari permette così di eliminare gli intermediari tra un operatore-investitore (privato, commerciante, impresa) e un servizio finanziario (prestito, garanzia, trading, commercio…). È vero, fare a meno di intermediari può essere più rapido e meno costoso. Ma anche molto più rischioso. Destrutturante, comunque: molte banche diventano superflue o inutili.

Servirà ancora un banchiere?

Quindi nella finanza decentralizzata non c’è bisogno neppure di un banchiere, tutto è automatizzato. Degli “smart contracts” sostituiscono gli intermediari o anche i consulenti nei procedimenti di convalida e di esecuzione delle operazioni finanziarie. Quei contratti sono detti “intelligenti” poiché procedono automaticamente quando una serie di condizioni, fissate in anticipo una volta per tutte, sono adempiute. 

 Per accedere alle piattaforme DeFi basta disporre di un portafoglio numerico che permette di entrare sulla blockchain e di potervi realizzare le operazioni. In un’operazione di prestito classico- ad esempio- è una banca che convalida la domanda di prestito, prima di procedere al trasferimento dei fondi e poi al programma di rimborso delle scadenze. Ognuno di queste tappe necessita quindi di un intervento umano e di un certo numero di formalità. Non saranno più necessari. 

Ai detentori di cripto vengono poi proposti gli stessi servizi e prodotti finanziari che offrono gli attori della finanza tradizionale con una maggior flessibilità. Contrariamente ai modi tradizionali, non c’è però un quadro regolamentare per proteggersi dalle frodi. E i cosiddetti “rug pull” (vedi sopra) abbondano soprattutto sugli scambi decentralizzati e la responsabilità o la “dovuta diligenza” nella selezione dei prodotti finanziari scelti… è trasferita all’utilizzatore.

È vero, occorre fare una precisazione. Chi dice criptomonete non dice obbligatoriamente finanza decentralizzata. Le maggiori piattaforme (come Binance, Coinbase, Kraken) hanno un funzionamento centralizzato, prelevano delle spese, hanno una sorte di “manovratore-generale-padrone” (l’abbiamo purtroppo visto nelle scorse settimane dove spesso vanno a finire): sono esse che trattano principalmente gli attivi numerici, che stoccano gli attivi, le chiavi di accesso ai portafogli dei clienti e, quindi, finiscono per somigliare per certi aspetti ad una banca. Che si troverà però fatalmente altrove, dove c’è movimento e potenzialità, e non certo nella Lugano che rimane tutt’al più… crypto-friendly.

Nell’immagine: il rug pull, un vecchio trucco sempre d’attualità






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