Per niente Florida
La situazione del Ticino di fronte alle prospettive politiche, industriali e occupazionali
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La situazione del Ticino di fronte alle prospettive politiche, industriali e occupazionali
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La situazione del Ticino di fronte alle prospettive politiche, industriali e occupazionali
Sono solo alcune delle considerazioni espresse lunedì, nel corso dell’emissione televisiva RSI “60 minuti” da Oliviero Pesenti, presidente di AITI, l’Associazione delle Aziende Industriali Ticinesi, intervistato da Reto Ceschi (detto per inciso, sempre e ancora uno dei migliori dei tanti bravi giornalisti del nostro servizio pubblico).
Dichiarazioni forti, nel contesto di una posizione, quella di AITI, che chiaramente difende gli interessi di aziende ed imprenditori (se possibile “socialmente responsabili”), non giudica irregolare la questione Tisin, invoca misure fiscali ulteriormente favorevoli alle aziende, ma anche un’accentuata attenzione al tema cruciale della “formazione”. Chiede tutto questo di fronte a studi ed indagini che ci dicono brutalmente quanto il Ticino stia perdendo in attrattività per i suoi stessi giovani, sempre più propensi a lasciare il Cantone per ragioni di studio e poi per scelta di vita.
Negli ultimi 6 anni, è stato detto nel corso della trasmissione, 3600 ticinesi fra i 20 e i 39 anni hanno lasciato il Cantone per trasferirsi oltre Gottardo (3000) o all’estero (600) e, per lo più, senza poi pensare di tornare “a casa”.
Insomma, si parla chiaramente di “fuga di cervelli”, soprattutto a causa delle condizioni sfavorevoli che il Cantone offre dal punto di vista “progettuale”, e soprattutto salariale. Le recenti vicende legate alla legge sul salario minimo sono lì a dirci quanto (ci) si dibatta intorno ad una politica economica che pare riproporsi “a rimorchio”, proprio secondo la nota definizione che ne diede Angelo Rossi nel (lontano?) 1975.
Da allora sono nate realtà socio-economiche e culturali importanti, come l’USI, la SUPSI (nella sua forma attuale), vi sono poli di ricerca rinomati a livello internazionale come l’IRB oppure l’Istituto Dalle Molle. Eppure, per dirla con Pesenti, manca, appunto, una “visione”, un’idea di futuro che necessariamente è in mano alla politica, o a quel che ne rimane.
Prendiamo, per pura ipotesi, dei giovani del luganese, l’area urbana e popolosa; e non pensiamo, per un momento, a coloro che sono legati ad esperienze come quella dell’autogestione (che dalla politica e dalla giustizia hanno davvero bisogno di risposte rapide e circostanziate), e neppure ai giovani in cerca di aree di ritrovo, socializzazione e di svago, come quelli del parco Saroli messi a tacere da proiettili di gomma; non pensiamo, infine, neppure ai tanti ragazzi in cerca di un apprendistato che non c’è.
Pensiamo a quelli che hanno finito il Liceo, che hanno davanti a sé una strada di formazione universitaria o di specializzazione professionale altamente qualificata. Ecco, dalle nostre parti hanno la possibilità di iscriversi all’Ateneo più caro della Svizzera, andare alla SUPSI oppure varcare le Alpi, o il confine (il che, in verità, fa loro anche piuttosto bene).
Ma poi? Il mercato del lavoro, in Svizzera, è ben altra cosa, e ben più attrattiva, per giovani formati e qualificati, di quanto non lo sia in Ticino; i salari sono nettamente superiori e, non da ultimo, una certa “progettualità sociale e politica” è ben più consistente e chiara che non quella farraginosa macchina economica promossa dall’inerzia di un apparato politico fermo al palo da decenni.
Se poi volessimo continuare nell’esercizio di immaginazione, e pensare a giovani che da oltre San Gottardo o dall’estero, guardassero a come si muove la politica ticinese, in particolare luganese, come non capire che possa per loro alimentarsi un senso di scoramento o disorientamento del tutto legittimi?
Se prendiamo come riferimento il termine di “visione” usato da Pesenti, o, se vogliamo, di progettualità della politica luganese, quella dei Poli in batteria che se va bene prende il volo quello dell’aeroporto, beh, allora, come dar torto a chi non ha nessuna motivazione né voglia di tornare?
Basta considerare, per un momento, le più recenti vicende politiche luganesi e farci sopra qualche pensierino. Foletti diventa sindaco all’unanimità e dice subito pubblicamente che per il vicesindacato si deve considerare un possibile opzione liberale; il suo compagno di Municipio Lorenzo Quadri, il secondo più votato alle elezioni, ci resta male, si candida come vicesindaco ma viene battuto, a maggioranza, da Badaracco, per quello che Quadri definisce “un inciucio”.
Nel frattempo, Filippo Lombardi ha il suo bel da fare a tenere a bada i tifosi del “suo” Ambrì Piotta, e manda messaggi accorati più alla Leventina che a Lugano; i liberali si godono il vicesindacato, definito come presupposto per una più fattiva collaborazione e unità d’intenti in Municipio (che, altrimenti, dobbiamo intendere, non avrebbero garantito?). Un (piccolo) ricatto politico (partitico) per ottenere la prova di essere ancora vivi sulla scena, attorno ad una poltrona: questo pare ormai l’obiettivo di un partito che a Lugano deve ancora capire cosa faccia in Municipio una signora che forse, di questi tempi, deve pensare ai vasi di Pandora più che al destino dell’autogestione (e tendenzialmente li tratterebbe allo stesso modo).
E i socialisti? Non pervenuti, verrebbe da dire esagerando forse un po’; ma che dire della libertà di voto concessa dal PS sul referendum per il PSE soltanto perché a gestire il progetto c’è la Municipale Cristina Zanini Barzaghi?
Un contesto camaleontico, quello della politica luganese, dove i principali attori dicono e fanno un po’ tutto e anche il contrario. Dunque, com’è possibile che da un tale contesto esca una “visione”?
Il Ticino, e Lugano in particolare forse, non è un paese per giovani, perché non ha elaborato in questi anni alcun modello di futuro. E l’immagine evocata da Reto Ceschi di “Florida della Svizzera”, una piena realizzazione dell’idea di “Sonnenstube” per anziani in cerca di temperature miti, villette a schiera o qualche simpatico rustico in cui passare serenamente gli anni della pensione, incombe sempre più come una realtà inesorabile.
Poi, naturalmente, tutti a lamentarsi e a piangere. Per quello è amabilmente a disposizione il neo-democentrista Massimo Suter, astro nascente della gastropolitica del rigurgito post-prandiale.
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