Perché siamo capitalisti?
(nonostante noi)
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Il “punctum dolens” (il punto dolente, direbbe anche Marx) è comunque sempre uno: il Capitalismo. Dalla sua nascita (collocata nel corso del XIX secolo), è ormai difficile render conto di tutte le opere (anche se Orazio Martinetti ci ha qui dato delle tracce) cominciando appunto da Il Capitale via via scendendo. Sino al “Capital au XXI siècle” di Thomas Piketty o all’originale ma profondo e persino sconvolgente “Theologie du capital” (ed. puf) di Edouard Jourdain. Senza dimenticare “A proposito de Il Capitale” del “nostro” Paolo Favilli, che ha il grande merito di interessarci e facilitarci le cose. Aggiungendo, forse, il troppo presto accantonato ma affascinante “Il capitalismo spiegato a mia nipote, nella speranza che ne vedrà la fine”, di un nostro scomunicato ex-consigliere nazionale, Jean Ziegler
Leggendo negli scorsi giorni i vari apporti su Naufraghi/e non ho potuto fare a meno di riprendere in mano un testo pubblicato (e letto) circa un anno fa, che mi aveva attirato per un interrogativo che non ci si pone mai: o perché lo si scarta a priori come senza senso o perché quasi offensivo ( no, non ci riguarda,anzi!). E’ il libro di Denis Colombi (sociologo, insegna scienze economiche e sociali a Parigi) intitolato, provocatoriamente: “Pourquoi sommes-nous capitalistes?”, seguito, come un’attenuante, in piccolo e tra parentesi, da un “(malgré nous)” un “nonstante noi” (Payot, 2022, pag.378).
A duecento anni dalla sua nascita il capitalismo è diventato una cultura (in senso sociologico), un modo di vita, una ideologia. Attraversa tutte le sfere della società, del mondo del lavoro, della politica, si insinua anche nell’infanzia (tanto da trovare libri che nsegnano il capitalismo ai bambini!), nell’educazione, nella famiglia.
Perché siamo capitalisti? Per rispondere al suo interrogativo, Colombi definisce il capitalismo come una forma di organizzazione particolare della sfera conomica. Tuttavia, non può essere limitato ai mercati, alle imprese, alla proprietà privata dei mezzi di produzione; esso trova vita in un comportamento particolare che consiste nel perseguire il profitto per se stesso, che non si limita ai ricchi, ai padroni, ai finanzieri, come si tenta far credere.
Dire quindi che il capitalismo è un regime economico specifico è assai riduttivo. E’ una costruzione sociale totale. Ciò non significa che basterebbe cambiare sistema economico, che sarebbe sufficiente non crederci, affinché sparisca. E neppure che cessando di comportarsi in un certo modo gli metteremmo fine. No, significa, molto più semplicemente, che poteva essere diversamente, che altre decisioni nel passato, altre concezioni, altre relazioni tra gli individui, avrebbero potuto condurci a un presente diverso da quello che constatiamo. Dunque, altre domande inevitabili: come siamo arrivati a tanto, perché siamo sempre lì, che cosa fa sì che il capitalismo continui a riprodursi e mantenersi?
Mentre numerosi sono i lavori di scienze sociali che descrivono e analizzano il sistema capitalista e i suoi efffetti su grande scala (macro), Colombi sceglie la strada opposta e parte dai comportamenti individuali per dimostrare come sono tutti impregnati di capitalismo, “nonostante noi”. E lo fa in cinque capitoli.
Il primo descrive in che cosa consiste il comportamento capitalista: razionalizzare, massimizzare, ricercare il profitto, accumulare. Dimostra l’artificiosità di questo comportamento, benché lo si presenti abitualmente come “connaturale” all’uomo. Quasi fossimo nati con l’imprinting capitalista. L’”homo oeconomicus” sarà una favola, un essere irrealista, descritto anche come immorale e ripugnante, tuttavia come si fa a non sostenere che il suo comportamento alberga in ognuno di noi?
Il secondo capitolo è consacrato al lavoro o, più precisamente, alla maniera con cui lo consideriamo. Perché lavoriamo? Per guadagnarsi la vita. Ecco, guadagnarsi la vita è un’idea che non ha senso se non nel capitalismo. E’ persino spassosa, perché si presta all’autoironia, la descrizione dell’interrogativo che ci sovrasta ogni mattina: perché mi alzo? La realtà mostra come la forza dell’ideologia ci arruola e ci incita a collocare il lavoro come valore morale essenziale, come principio di giustizia…tanto da essere usato anche per giustificare le ineguaglianze economiche.
Il terzo capitolo tocca il perno del funzionamento del capitalismo. Sono i processi di socializzazione che spiegano il “nonostante noi”. I comportamenti capitalisti non sono naturali, si imparano. Ciò che fa dire all’autore che “ se noi agiamo in accordo con il capitalismo è perché vi siamo stati formati”, sin dall’infanzia. Questa socializzazione economica genera delle disposizioni al calcolo e induce a prendere molto presto coscienza del denaro, della sua importanza e forza persuasiva, delle ineguaglianze economiche che ne sono conseguenza logica, a considerare il mondo come interamente “calcolabile”.
Il quarto capitolo descrive il modo in cui noi siamo immersi nel capitalismo, mediante la frequentazione quotidiana della sua istituzione centrale, il mercato, che disciplina ogni nostro comportamento. Perché “non si sfugge al mercato”, di cui lo Stato stabilisce le regole del gioco. Uno dei suoi grandi risultati è stato quello di aver abolito la separazione tra pubblico e privato, tra Stato e mercato, soprattutto a partire dagli anni ’80, quando il neoliberalismo è diventato l’ideologia delle classi superiori e della tecnocrazia. Il mercato emerge quindi per ciò che è: una organizzazione economica storicamente situata e propizia allo sviluppo del capitalismo. Ciò che produce la dottrina neoliberale è appunto l’estensione dei mercati.
La ricerca storica dimostra però che non c’è un capitalismo ma dei capitalismi. Il più recente è caratterizzato dalla finanziarizzazione dell’economia, con il potere degli azionisti sulle imprese, e anche la finanziarizzazione della società, con la generalizzazione dell’accesso al credito, ai mercati finanziari (all’indebitamento facile perché esigenza di vitalità di mercato e capitalistica). E quindi la fantasmagorica illusione della democratizzazione del capitalismo o del capitalismo uguale democrazia. Da esportare.
Il quinto capitolo può solo tirare una constatazione fatalista: di fronte ai meccanismi che producono i nostri comportamenti economici, “siamo condannati a essere capitalisti.”
Denis Colombi tenta però anche di riflettere sulla tappa successiva. Diversi scenari (o diverse “prove”, come direbbe la sociologia pragmatica) possono toccare il capitalismo. La continuazione del sistema così com’è: traiettoria improbabile poichè la crisi ecologica e dei limiti del nostro pianeta è entrata in contraddizione e conflitto con la ricerca infinita del profitto. Il superamento del capitalismo e la sua scomparsa; due ostacoli rendono però incerta questa via: la storia mostra che le rivoluzioni richiedono molto tempo e che non si desocializzano-risocializzano gli individui in un giorno e tanto meno per decreto; d’altra parte manca ancora una “utopia realista” sufficientemente potente e condivisa per proporre un sistema alternativo e sostitutivo .Un terzo scenario, il più probabile, è quello di un nuovo mutamento del capitalismo, com’è ormai capitato più volte nella storia, spesso sottraendo ad altri (anche al socialismo) ciò che gli serviva a mantenersi… eterno.
Il capitalismo è infatti una “realtà plastica” e, quindi, lo sono anche i nostri comportamenti. Attendere che gli individui cambino comportamento e che la finiscano di comportarsi come dei capitalisti è una via senza uscita. Gli individui (dice Colombi) “sont agis plus qu’ìls n’agissent”; insomma, sono manovrati più che manovratori. E’ vero, possono rendersi finalmente conto di ciò che fanno e di che cosa sono concausa e riuscire a trasformarsi. Tuttavia, sino a quando le istituzioni sociali ed economiche continueranno, con l’inquadratura dello Stato, a organizzarsi sotto forma di mercato, in modo che gli individui facciano scelte nel proprio esclusivo interesse, l’homo economicus continuerà ad avere lunga vita.
A questo punto si dirà che le oltre trecento pagine sono servite a poco o solo a renderci conto della realtà e a rassegnarci. Non è così. Innanzitutto, il capitalismo così com’è, sociologicamente parlando, è una devianza (déviance).Non si può negarlo. Allora bisognerà pur chiedersi, se ci si decide di lasciarlo fare, che cosa occorra mettere in atto affinché crei meno danni nella nostra vita e bisognerà anche chiedersi che spazio lasciare ai comportamenti capitalisti.
L’autore insiste sul fatto che i nostri comportamenti sono sì capitalisti, ma non lo sono mai interamente, lo sono sino a un certo punto, poiché gli individui integrano altri valori diversi dal calcolo o dalla massimizzazione del profitto (si pensi al senso di giustizia, all’amicizia, alla solidarietà, al dono o alla ridistribuzione ecc. che non sono meno importanti per ri-fare la società). Già, ma come far leva su quelli?
In secondo luogo, proprio di fronte alle trasformazioni attuali del capitalismo, occorre aprire finalmente gli occhi suo nostri comportamenti quotidiani; non potremo non scoprire tutti gli eccessi e le assurdità in cui incappiamo o che (nonostante noi) sosteniamo. Ed è da lì che bisogna cominciare. O molto probabilmente vi saremo costretti. Ed è anche da lì che deve maturare la scelta politica, quella di estendere questo nostro necessario autoesame a chi può rappresentarci nelle istituzioni democratiche.
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