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• 13 Luglio 2021 – Enrico Lombardi
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“Non se ne può più di sentir ripetere la famosa frase di Orson Welles nel ‘Terzo uomo’. Quella che dice che in Italia per trent’anni sotto i Borgia ci furono guerre e carneficine, ma ne uscirono Leonardo, Michelangelo e il Rinascimento. E che da cinquecento anni di amore fraterno, in Svizzera è venuto fuori solo l’orologio a cucù”.

Lo ricorda Guido De Franceschi in apertura della sua prefazione al volume “Svizzera”, una raccolta di contributi di vari autori pubblicata in questi giorni a Milano dalle Edizioni Iperborea nella collana “The Passenger”. E non a caso proprio questa introduzione prende il titolo di “Elvetofobia”, per dire di un paese, il nostro, che come pochi altri, forse nessuno, è oggetto di pregiudizi e di cliché dentro cui, poi, noi stessi ci dibattiamo, una volta per spiegare, una volta per confermare, un’altra ancora per smentire, non di rado anche un po’ goffamente.

Infatti, come ci ricorda, nel volume, lo scrittore Oliver Scharpf, alla celebre battuta di Welles quel che si è riusciti a contrapporre è, semplicemente, che l’orologio a cucù non è un’invenzione svizzera, bensì della Foresta Nera. Per carità, distinguiamo, distinguiamo bene.

È quanto la Svizzera, storicamente, ha passato il tempo a fare: distinguere e distinguersi, vivere di una propria vera o presunta condizione di “eccezione” per affermare, in nome di essa, una costante, reiterata estraneità a quanto capita intorno a lei, divenendo, con il tempo, una sorta di “isola che non c’è” (per dirla con il titolo del saggio di Yari Bernasconi).

Basti pensare al rapporto con i paesi confinanti, al tema dei frontalieri, per esempio, che implica spesso una sorta di “avversione” ampiamente brandita da una certa parte politica, ma che poi, di fatto, costituisce uno degli aspetti cruciali del (buon) funzionamento economico e sociale del paese. Un paese, per intenderci, che è ormai giunto ad una presenza straniera che costituisce quasi un quarto della popolazione, di molto superiore a quanto accade in Italia, Francia, Germania.

Eppure, come in una sorta di stato di “dissociazione” la vita quotidiana svizzera è permeata da una costante “diffidenza” verso tutto e tutti, che si esprime a volte in forme di esplicito rifiuto verso l’adesione ad organizzazioni e contesti internazionali che ne fanno, all’estero, un “caso” non sempre comprensibile e men che meno accettabile. Basti pensare al tema dei rapporti fra Svizzera ed UE.

Collocato nel bel mezzo dell’Europa, punto di transito focale e cruciale per ogni spostamento tra sud e nord del continente, il nostro Paese continua a comportarsi come fosse, in fondo, sempre un po’ messo sotto assedio, anche se poi – detto magari un po’ malignamente – gli assedi li abbiamo storicamente sempre evitati e dai momenti drammatici della storia degli ultimi due secoli abbiamo infine regolarmente tratto i nostri vantaggi.

Lo afferma senza mezzi termini, nel primo contributo al volume, il noto scrittore Peter Bichsel: “Ricca, la Svizzera, lo è diventata soprattutto nel dopoguerra, e questo dopoguerra non deve finire. È anche uno dei motivi per cui abbiamo esitato così a lungo a entrare nell’ONU. (…) ‘Quest’ONU fallirà, e quando fallirà, noi ci guadagneremo’: così la pensavano gli oppositori dell’ONU. Lo stesso vale per l’UE: ‘L’Unione Europea non serve a niente e fallirà, e se noi non falliremo con lei, ne usciremo alla grande’. Abbiamo sempre puntato sulle catastrofi.”

È questo uno degli aspetti che maggiormente ha generato, di riflesso, non pochi sospetti e un bel po’ di (pre)giudizi nei confronti della Svizzera anche negli ultimi decenni, con la rivelazione, per esempio, di quanto le nostre banche abbiano contato nel “gestire” con gran vantaggio loro, e poi del paese intero, capitali provenienti da ogni dove, nascosti e custoditi nel ferreo protocollo del “segreto bancario”.

Un tema, toccato qui con il racconto di una vicenda in qualche modo “esemplare”, perché riguarda proprio uno dei personaggi che hanno messo in crisi il “sistema” attraverso rivelazioni insider e poi denunce, processi, condanne e assoluzioni in un ventennio vissuto con ferma ostinazione, un po’ ossessiva, un po’ folle, eppure, infine, decisiva. Si tratta della vicenda di Rudolf Elmer, oggetto di un’inchiesta dell’”Economist” riprodotta in questo volume nella traduzione di Ada Arduini. Una vicenda da film, tutta da leggere.

E come non parlare di un’altra “istituzione” nazionale, ovvero l’esercito? Lo fa, qui, il giornalista culturale Enrico Bianda, con un bel contributo fondato anche sull’esperienza personale di milite, per dire come anche in questo caso, fra tanti dibattiti, scontri a volte anche aspri sul senso di un esercito che non è mai realmente entrato in guerra, si realizzi però una sorta di alchemico processo identitario: “Una cosa che ho imparato”, dice Bianda,” all’indomani della mia scuola reclute, è che l’istituzione dell’esercito è un elemento fondante dell’identità svizzera”.

Ecco l’identità svizzera che torna ad interrogarsi ed essere interrogata dal mondo che ci circonda, senza che una chiara ed assertiva definizione trovi ancora oggi una sua autorevole espressione. Si ricorderà, in proposito, come fa ancora Yari Bernasconi nel suo saggio, il celebre quanto provocatorio motto dell’artista Ben Vautier che campeggiava al Padiglione Svizzero dell’Esposizione Universale di Siviglia nel 1992: “La Svizzera non esiste”.

Certo, si torna, regolarmente ad evocarne la sua natura di “Willensnation”, il suo multiculturalismo, la sua capacità di integrare e rendere in qualche modo omogeneo quel che omogeneo di principio e storicamente non lo è. Gli stessi rapporti fra le regioni linguistiche, con tanto di famigerato “Röstigraben” sono lì a dirci che le differenze, anche sostanziali sono almeno pari agli elementi unificanti.

Forse, appunto, perché a tenerci uniti è primariamente l’idea, la convinzione, la sensazione, di vivere in una condizione comunque privilegiata, riparata, discosta, in cui finiamo per rinchiuderci come in una gabbia dorata. E qui non possono non tornare alla mente le parole di quello che è stato forse il più grande autore della letteratura svizzera, Friedrich Dürrenmatt, di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita.

Nel suo celebre discorso pronunciato il 22 novembre 1990 in omaggio al drammaturgo dissidente e poi presidente ceco Václav Havel, Dürrenmatt definisce la Svizzera ”come una prigione indubbiamente ben diversa da quelle prigioni nelle quali Lei, caro Havel, è stato gettato: come una prigione nella quale gli svizzeri si sono rifugiati. Solo all’interno di questa prigione gli svizzeri si sentono al riparo da aggressioni (…), si sentono liberi, più liberi di tutti gli uomini, liberi – da prigionieri – nella prigione della loro neutralità. Il solo problema di questa prigione è dimostrare che essa non è una prigione, bensì un baluardo della libertà; (…) vista dall’esterno, una prigione è pur sempre una prigione e chi vi risiede è un prigioniero e chi è prigioniero non è libero: per il mondo esterno, liberi sono solo i carcerieri, poiché se questi non fossero liberi sarebbero inevitabilmente dei prigionieri. Per liberarsi da questa contraddizione, i prigionieri hanno assunto anche il ruolo di carceriere: ogni prigioniero, facendo obbligatoriamente il carceriere di sé stesso, dimostra la propria libertà. Lo Svizzero ha dunque il vantaggio dialettico di essere contemporaneamente libero, prigioniero e carceriere. La prigione non ha bisogno di muri, perché i suoi prigionieri sono i carcerieri e vigilano su se stessi e, poiché i custodi sono uomini liberi, trafficano fra loro e con tutto il mondo, e come!” ( da F. Dürrenmatt, “Le ragioni della speranza”, trad. Sabina Chiarini, Il Melangolo, Genova, 1991, p.16)

Parole, che nel loro “stordente” sviluppo argomentativo, ancora dopo 30 anni vanno a sondare nel profondo di un paradosso chiamato Svizzera, su cui occorre riflettere ancora a lungo, per pensare e ripensare l’identità di un Paese che dovrebbe forse cominciare ad abbandonare alcune sue ataviche paure.

Il bel volume “Svizzera” di Iperborea è uno strumento utilissimo per cominciare a compiere questo indispensabile esercizio.






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