Fare e disfare è tutto un guadagnare (miliardi)
Il “caso Amazon”, un fiume in piena di guadagni e di distruzione dei prodotti invenduti
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Il “caso Amazon”, un fiume in piena di guadagni e di distruzione dei prodotti invenduti
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Il “caso Amazon”, un fiume in piena di guadagni e di distruzione dei prodotti invenduti
È ormai leggenda, nel nostro contesto nazionale, dentro il capitolo dei costi e delle sovvenzioni statali per l’agricoltura, come ogni anno si dica che vengano gettati quintali e quintali di albicocche vallesane perché non scenda il loro (alto) costo e rendimento.
In ambito di economia globale il meccanismo si ingigantisce ovviamente a dismisura, e non solo nel commercio di albicocche o di ogni altro genere alimentare. A una produzione che per principio deve assolutamente e continuamente aumentare si affianca, in modo altrettanto esponenziale, la necessità di “smaltire” le eccedenze, togliere di mezzo i prodotti in eccesso, gettare letteralmente via milioni e milioni di prodotti.
In questi ultimi giorni è tornato a far parlare di sé, in tal senso, il massimo distributore mondiale di prodotti d’uso comune, nientemeno che Amazon, il gigante dell’e-commerce nato nel 1994 da una modesta “startup” di tale Jeff Bezos, oggi l’uomo più ricco del mondo, con un patrimonio stimato in circa 200 miliardi di dollari. Se ne occupa, fra l’altro, anche Natascha Fioretti su “Azione” dello scorso 5 luglio.
Un’inchiesta condotta in Scozia dall’emittente televisiva ITV in uno dei 175 mega-magazzini Amazon distribuiti nel mondo, ha rivelato infatti che un quantitativo incredibile di prodotti invenduti o ritornati da acquirenti insoddisfatti, viene eliminato sistematicamente. Elettrodomestici di ogni tipo, televisori ancora nuovi ed impacchettati, computer, smartphone, fino a cubetti lego o mascherine anti-Covid, vengono eliminati in discariche senza il minimo rimpianto, anzi, come un fatto necessario, che permette di liberare spazi di magazzino per altri prodotti.
Si tratta di una realtà inquietante, di cui riferisce in un lungo articolo il settimanale “Internazionale” traducendo un’inchiesta pubblicata in Inghilterra dal “Tribune”.
In verità, di questa incredibile prassi erano già emerse importanti rivelazioni in altri Paesi prima che in Inghilterra: nel 2019 due altre inchieste, realizzate rispettivamente in Francia e in Germania avevano già scoperchiato, non senza ampi echi polemici, il vaso di Pandora degli sprechi programmatici di Amazon nei magazzini situati nei due Paesi.
Della questione si era pure occupata l’emissione “Patti Chiari” di RSI con un duro servizio di denuncia.
Il fatto è che, come illustra bene l’articolo del “Tribune” tradotto da “internazionale”, che questo avviene per un meccanismo specifico dell’attività di Amazon che consiste nel mettere a disposizione dei vari produttori due atout fondamentali: una grande visibilità data dal proprio portale ed uno spazio nei propri magazzini per conservare la merce in attesa delle ordinazioni. E proprio qui sta la questione: i magazzini di Amazon sono hangar sterminati che accolgono i prodotti delle più diverse aziende “affittando” gli spazi al metro quadrato. E naturalmente, ogni anno l’affitto aumenta, come i margini di guadagno della grande Internet Company, rendendo per lo più maggiormente dispendioso il ritiro della merce invenduta da parte dei singoli produttori piuttosto che il loro “smaltimento” in blocco di cui Amazon, benevolmente, (ossia a poco prezzo) si occupa per liberare spazi destinabili a nuovi prodotti.
Una logica, verrebbe da dire “perversa”, che nell’inchiesta della ITV condotta dal giornalista Richard Pallot a Dunfermline, nella Scozia orientale, fa sì che soltanto in quel deposito si distruggano ogni anno milioni di prodotti invenduti, molti dei quali neppure tolti dal proprio imballaggio. Figurarsi cosa possa accadere nei depositi sparsi nel mondo. Leggiamo:
“Un lavoratore di Amazon protetto dall’anonimato ha raccontato a Pallot: ‘Il nostro obiettivo è distruggere 130mila oggetti ogni settimana’. Un documento conferma che in sette giorni sono stati contrassegnati per lo smaltimento 124mila prodotti, e solo 28mila per le donazioni. Un dirigente ha rivelato a Pallot che in poche settimane sono stati distrutti fino a 200mila oggetti. Secondo il lavoratore anonimo circa metà era composta da prodotti restituiti, spesso in buone condizioni, mentre l’altra metà era rappresentata da quelli nuovi, alcuni di buona qualità. “L’altro giorno abbiamo fatto sparire ventimila mascherine ancora dentro le confezioni. Non ha senso”, ha dichiarato. Alcuni prodotti finiscono negli impianti di riciclaggio, ma la maggior parte va direttamente nelle discariche.”
Allucinante. Eppure funziona così, da anni, anche perché vuoi mettere la comodità, per il consumatore, di ricevere il proprio pacchettino personale in pochi giorni dall’ordinazione, con una convenientissima offerta di pannolini? O di cartucce per stampanti? (O di stampanti 3D per pannolini, magari?)
“Il modello di Amazon, basato sulla spedizione di grandi quantità di prodotti in piccoli pacchi consegnati direttamente a casa entro pochi giorni, se non poche ore, oggi non è sostenibile e probabilmente non lo sarà mai. Ma è la conseguenza di una spinta che dura da decenni ad anteporre i prezzi bassi a tutto il resto e a considerare i lavoratori e l’ambiente come elementi sacrificabili in virtù del profitto.
Per cambiare questi princìpi basilari del nostro sistema non basterà modificare il nostro modo di fare acquisti né introdurre nuove tasse per arginare le grandi aziende. Servirà un profondo ripensamento del modo in cui funziona la nostra economia.”
Che sia il caso di pensarci, ciascuno di noi, non solo quando compriamo le albicocche?
Immagine: RSI
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