Quel criptofallimento che affonda l’altruismo e la filantropia che neppure il Padreterno
I milioni che in nome dell’attenzione al prossimo finiscono per prosperare beatamente nelle tasche di chi dice di elargirli
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I milioni che in nome dell’attenzione al prossimo finiscono per prosperare beatamente nelle tasche di chi dice di elargirli
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• – Redazione
I milioni che in nome dell’attenzione al prossimo finiscono per prosperare beatamente nelle tasche di chi dice di elargirli
Il fondatore di quella miniera, crollata, di criprovalute, Sam Bankman-Fried (uomo della banca cotta, ammettiamolo: nomina sunt omina, il nome è un… augurio, dicevano pure i latini), la cui fortuna era valutata a 30 miliardi di dollari, non avrebbe ormai più niente.”Peccato!”, ha esclamato e scritto qualcuno. Sembra infatti che avesse promesso di dare buona parte della sua fortuna a organizzazioni filantropiche. Chissà perché la filantropia accompagna così spesso il malaffare?
Si sa ora che SBS, come lo soprannominavano, era discepolo- come tanti altri milionari o miliardari americani- del movimento dell’”altruismo efficace” (efficient altruism). Un movimento fondato nel 2011 da William MacAskill, professore a Oxford, basato su un’idea fondamentale: razionalizzare l’aiuto umanitario cercando il modo più appropriato per rendere il dono efficace, misurato scientificamente, sia per l’individuo fuori casa sia per quello in capo al mondo.
La rivista The Economist ha scritto che MacAskill ha indotto “SBF” a buttarsi nella finanza secondo il “principio dell’ottimizzazione” (che dunque non è più solo fiscale!). Il quale consiste – per dirla in termini semplici semplici – nel guadagnare sempre di più perché si possa in tal modo donare di più.
Quel che è certo, a conti e fallimento fatti, è che SBS dev’essere andato oltre le speranze del proprio maestro.
Alla base di tutto c’è una fede incrollabile nella tecnologia e la sfiducia (se non addirittura l’odio) nello Stato, nelle sue istituzioni (come potrebbe essere la Banca Nazionale, garante del franco), nell’amministrazione pubblica (sempre disprezzata, comunque subito da invocare quando deve elargire aiuti all’industria o all’agricoltura), che ci ritroviamo anche in casa nostra, senza saperlo, nelle motivazioni non dette ma implicite che sono riuscite a far adottare le criptovalute (o l’altra moneta) anche dal Gran Consiglio ticinese, ignaro di tutto.
C’è però anche una buona dose di patto biblico (o di dogma) americano che va oltre l’“In God we trust” (confidiamo in Dio, stampato sul dollaro) e che ora, pur di offrire a tutto una buona giustificazione, è riuscito anche a vestirsi di bitcoin.
Chi riesce a fare soldi, chi diventa ricco, deve restituire alla comunità una parte del denaro che solo Dio e il successo gli hanno permesso di accumulare. Fu l’opera messianica di Carnegie che proscrive anche l’eredità nel suo libro “Il Vangelo della ricchezza” (del 1889!) e fondò la filantropia americana, rompendo nelle intenzioni con la carità, di per sé spregevole. Essa era anche, in sostanza, la volontà di ricupero (dopo le malefatte?) della grazia e delle benevolenza di Dio, unico elargitore e giustificatore di ogni fortuna e… prototipo, nella sua generosità, del “buon capitalista” premiato dalla divinità prima ancora che dai giochi di mercato. Già all’inizio dello scorso secolo un presidente realista ed anche demolitore dei trust, Theodore Roosevelt, avvertiva però che “la spesa di queste fortune in beneficenza non compenserà mai il comportamento scorretto che ha permesso di ammassare quelle fortune”. E sistemava così anche Dio.
Oggi si può comunque dire, più laicamente e prosaicamente, che 400 miliardari americani danno ogni anno 10 miliardi di dollari in filantropia. Bella somma, ma è solo lo 0,4 per cento della loro ricchezza, molto meno dell’imposta sulla fortuna del 6 per cento che la senatrice Elisabeth Warren, citando appunto Roosevelt, vorrebbe far loro pagare, senza riuscirci.
Durante gli ultimi anni si è comunque imposta la strategia di creare delle fondazioni senza diritto di successione né d’imposta sulle plusvalenze, con l’obbligo però di distribuire ogni anno il 5 per cento del capitale. Sono fiorite a dismisura, quasi tutte di tipo familiare, come ottimo strumento per la cosiddetta “ottimizzazione fiscale” più che per la filantropia o il mecenatismo: essa permette infatti di controllare la propria fortuna in franchigia d’imposta.
Anche in Svizzera, quasi su imitazione americana, fioriscono i filantropi. Lo si deduce dal rapporto sulle fondazioni pubblicato da SwissFoundation e dall’Università di Zurigo. Quasi a ritmo giornaliero, per un certo periodo, è stata creata almeno una fondazione «con scopo di utilità pubblica». Sono ormai quasi tredicimila; raddoppiate in un ventennio. Così la Svizzera è uno dei paesi con la più alta densità di fondazioni filantropiche, una ogni 600 abitanti. Secondo un altro studio del Center of Philanthropy Studies, le fondazioni svizzere dispongono di un patrimonio superiore ai 70 miliardi di franchi. Oltre la metà svolgono un’«azione sociale», poi operano nella formazione e ricerca e nello svago e nella cultura.
Come si può spiegare un successo del genere ? Probabilmente con l’aumento dei milionari, mossi da generosità, da patriottismo, da sensi di colpa, da una vita più lunga. In fondo è anche vero che abbiamo ormai più milionari (330 mila) che persone in assistenza sociale (250 mila).
Si deve però anche ammettere che il diritto delle fondazioni, in Svizzera, è facile, flessibile e gli incentivi fiscali aiutano. Per la legge federale, ad esempio, i doni sono deducibili dall’imposta sino a concorrenza del 20 per cento dei redditi, sia per le persone fisiche sia per quelle giuridiche. Rapportati a milioni, sono un buon taglio.
Alexandre Lambelet, professore alla Haute école de travail social e de la santé di Losanna, autore di un libro intitolato appunto «La philantropie » edito da SciencesPo, se ne è occupato. Non arriva certo a dire che la filantropia non sia utile e generosa. Sostiene però che come pratica collettiva è contestataria perché, di fatto, rimette in discussione il senso, i mezzi ed anche la legittimità delle politiche pubbliche e tende a dimostrare che le organizzazioni filantropiche fanno meglio e più efficacemente, con minori mezzi, degli enti pubblici.
Oppure che la logica del mercato, se lasciata fare e sgravata dal fisco, risolve anche i problemi sociali. La filantropia tenderebbe in pratica a fare una « privatizzazione » delle politiche assegnate alle autorità pubbliche, nazionali o locali. Tanto più quando gli Stati ripetono il discorso del debito, delle « casse vuote » o si impone il capestro del rientro di bilancio.
Potremmo però girare la critica in altro modo. C’è da chiedersi se nella nostra società, con l’economia disumanizzante, tesa solo al breve termine e alla ricerca della massima efficienza, con la politica che l’asseconda e proprio in particolari settori (come salute, invalidità, persino ricerca), dove la donazione è valore essenziale, fuori dagli schemi economicisti, non ci sia una progressiva introduzione di due veleni potenzialmente distruttivi : l’uno sta nella mercificazione o nell’ottimizzazione fiscale di tutto, anche del dono ; l’altro, con il pretesto del costo economico insostenibile, sta nella dissimulazione di un obbligo umano, civile, pubblico, con la fuga per la tangente verso la filantropia interessata, assai ipocrita e liberata dal giusto e proporzionale obbligo civile-fiscale nei confronti della comunità. Insomma, il date e vi sarà dato con cui non può essere d’accordo neppure il Padreterno. Anche se filantropia significa amore per l’uomo.
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