Racconto d’agosto – Il martirio di Filomena (3)
Il sacrificio di Maria João
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Il sacrificio di Maria João
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Per prima cosa credo sia necessario presentarmi, non ho infatti la supponenza di credere che i nostri brevi incontri abbiano lasciato un segno in lei. Sono Maria João Gonçalves Pereira, madre di João Gonçalves, che è stato suo allievo cinque anni or sono. Non so se lei ricorda, ma João era maggiore di due anni rispetto ai suoi compagni di classe. Aveva frequentato le scuole in Portogallo, dove lo avevamo lasciato dai nonni quando decidemmo di emigrare in Svizzera. Come forse ricorda gliene accennai, spiegandole anche i motivi dell’aggressività iniziale di João, a contatto con ragazzini non ancora in adolescenza (quando lui era in piena tempesta ormonale) e costretto ad esprimersi in una lingua che non conosceva.
João era odioso e il suo comportamento mi mortificava, così decisi di mettercela tutta per cambiare le cose. Tanto per cominciare ogni sera mi prendevo un’ora per parlargli in italiano, cosa non scontata per me – ma lui mi subìva e basta. Subìva me, sua madre, un’estranea che di colpo doveva chiamare «mamma» pur avendola vista solo in fotografia e nel corso di qualche breve soggiorno in Portogallo (mio marito lavorava come cameriere e le nostre vacanze combaciavano raramente). Una madre che, forse un po’ innaturalmente, lo costringeva a parlare in italiano, quando lui non aveva ancora elaborato il lutto per la perdita dell’amato nonno.
Credo che quello per João sia stato uno dei periodi più difficili. Lui è cresciuto nel nord del Portogallo, non lontano dall’Oceano Atlantico, in un paese rurale in cui i coetanei si contavano sulle dita di una mano. I genitori di mio marito lavoravano la terra: persone di poche parole, dai modi forse un poco rudi e schietti, ma molto generose. Avevano mani impressionanti, deformate dal lavoro. Da giovane mio suocero aveva imparato a leggere: la sua fortuna era stata quella di rimanere orfano e venire affidato alle cure severe dei gesuiti. Mia suocera non ebbe questo privilegio, e probabilmente non riuscì mai a capire fino in fondo il piacere che lui si concedeva tutte le sere quando, rientrato dal lavoro, prendeva un libro e si sistemava su una sedia o sul divano del poco pretenzioso salotto.
Mi deve scusare, Signor Galvani, se sto divagando. È un mio grave difetto, ho sempre l’impressione di dovermi giustificare, di dovere spiegare al mondo i motivi della mia presenza e delle mie azioni. Volevo semplicemente farle comprendere l’ambiente in cui era cresciuto mio figlio, abituato a trascorrere molto tempo in solitudine e a parlare lo stretto necessario.
Un giorno il nonno di João non ritornò dai campi. Allarmato dalla madre, suo figlio minore andò a cercarlo in motoretta, e lo trovò mezz’ora più tardi con il volto conficcato nella terra che aveva appena lavorato, stroncato da un infarto. Io e mio marito chiedemmo un permesso straordinario e partimmo in macchina quella notte stessa. Mio marito Filipe si trattenne fino al confine tra Spagna e Portogallo: non diceva niente, limitandosi a fissare l’asfalto con gli occhi che strabuzzavano. Una volta in patria però scoppiò a piangere e cominciò a pigiare l’acceleratore come un forsennato, come se arrivare un’ora prima avrebbe fatto la differenza. João ci aspettava sullo spiazzo di terra battuta davanti a casa, aveva gli occhi gonfi e quando lo abbracciammo tremava. Ci fece strada fino alla camera ardente, dove mio suocero giaceva in una bara di legno scuro, vestito del suo abito migliore, i baffi ben pettinati, il volto ripulito dalla terra e le mani grosse e nodose raccolte in grembo. Quattro donne, tra cui mia suocera, erano impegnate a recitare il rosario. Al nostro ingresso nessuna si alzò o si interruppe: si limitarono a invitarci a prendere parte alla preghiera con un cenno del capo. La veglia durò due giorni, durante i quali cercai di rendermi utile preparando caffè e offrendo biscotti agli ospiti. Approfittai di quei momenti in cucina, dove nessuno ci avrebbe disturbato, per ricucire con João un filo che si era spezzato dodici anni prima, quando di comune accordo con l’uomo che giaceva nella bara due stanze più in là, proprio al tavolo di quella cucina, avevamo deciso che noi ci saremmo sacrificati partendo per la Svizzera.
© 2017 Simona Sala
Illustrazioni di Franco Cavani
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