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Redazione
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• 29 Luglio 2023 – Redazione

Di Jacopo Di Miceli, La Valigia blu 

La diga ha ceduto. Il 25 giugno Robert Sesselmann di Alternativa per la Germania (Alternative für Deutschland, AfD) è diventato il primo politico dell’estrema destra a ottenere una carica elettiva in Germania dal 1945: sarà l’amministratore del distretto di Sonneberg, in Turingia. Appena una settimana dopo, un altro candidato del partito, Hannes Loth, è stato eletto sindaco di Raguhn-Jeßnitz, nella Sassonia-Anhalt.

I due successi – più simbolici che sostanziali, dato che entrambi i vincitori hanno prevalso per poche centinaia di voti sui rispettivi sfidanti, in circoscrizioni elettorali molto piccole – hanno tuttavia suscitato profondo sgomento. AfD viaggia con il vento in poppa non solo nella ex Germania Est, sua roccaforte, ma è ormai accreditata nei sondaggi come seconda forza politica in tutto il paese, al 19%, dietro soltanto ai cristiano-democratici.

Nonostante parecchi commentatori avessero ottimisticamente pronosticato il declino del “momento populista” durante la pandemia, per via di un rinnovato vigore interventista dei partiti tradizionali in risposta all’emergenza sanitaria, le nuove destre hanno riguadagnato terreno negli ultimi due anni, soprattutto in Europa. Mentre nelle Americhe Donald Trump e Jair Bolsonaro sono stati scalzati dal potere, pur in un clima di tensione sfociato in due insurrezioni, nel vecchio continente sono in ascesa, oltre alla succitata AfD, l’FPÖ in Austria (primo partito con il 28%), Vox in Spagna (reduce da un raddoppio dei consensi alle municipali [ma seccamente sconfitta alle recenti elezioni nazionali, n.d.r.] ), i Democratici Svedesi (che, dopo il 20,5% dello scorso settembre, forniscono supporto esterno al governo di centrodestra) e i Veri Finlandesi (anch’essi accordatisi per un’alleanza di governo con i conservatori).

In questo contesto, non vanno naturalmente dimenticati l’approdo di Fratelli d’Italia e di Giorgia Meloni a Palazzo Chigi in Italia, la stabilità, anche a spese delle opposizioni, degli esecutivi ungherese e polacco e gli inquietanti segnali provenienti da altri paesi, come la Grecia, dove ben tre partiti di estrema destra sono entrati in parlamento dopo le elezioni del 25 giugno.

Siamo, insomma, ancora nel mezzo della “quarta ondata” dell’ultradestra, incominciata, secondo il politologo olandese Cas Mudde, al debutto del nuovo secolo. A differenza dei periodi precedenti, quando l’estrema destra (che punta a sovvertire il modello democratico) e la destra radicale (che ne contesta alcuni ambiti, come la separazione dei poteri) erano marginalizzate nel dibattito pubblico, nella quarta ondata sono state, almeno parzialmente, istituzionalizzate e normalizzate. L’accettabilità delle loro posizioni è così cresciuta presso i cittadini. Ma come è stato possibile?

Una delle più interpretazioni più gettonate, perché è anche la più rassicurante, è che il voto all’ultradestra non indichi un’adesione ideologica, ma sia una mera forma di protesta alla luce delle delusioni inferte dai partiti tradizionali. Lo sostiene per esempio la deputata tedesca Katja Adler dei liberali della FDP. La stessa lettura la dà, paradossalmente, il principale partito di opposizione, la CDU, che pure, più di ogni altro, avrebbe dovuto beneficiare dalla crisi di approvazione della maggioranza. Il suo leader Friedrich Merz ha infatti scaricato sul governo ogni responsabilità, perché con le sue politiche estremiste, soprattutto in campo energetico, avrebbe favorito una reazione estrema all’opposto da parte dell’elettorato.

Secondo il sociologo Matthias Quent, dell’Università di Magdeburgo-Stendal, la narrazione del voto di protesta fa però il gioco dell’AfD, perché “facilita la normalizzazione dei contenuti di estrema destra anche oltre il loro bacino potenziale”. In questo modo, potremmo aggiungere, passa il messaggio che il popolo corrisponda con l’estrema destra – un’equivalenza del tutto infondata – e che per ascoltarlo sia quindi necessario implementare politiche di estrema destra. “In termini populisti”, scrive Mudde in Ultradestra, “è ‘la gente’ (ridotta agli elettori di destra radicale) che è ‘autentica’ e ‘morale’, e le ‘élite’ (ovvero tutti i partiti istituzionali) a essere ‘cosmopolite’ e ‘corrotte’”.

Wilhelm Heitmeyer, sociologo dell’Università di Bielefeld che da quarant’anni studia l’estrema destra, concorda nel considerare ‘”banalizzante” l’espressione “voto di protesta”. “L’idea che gli elettori perduti torneranno se si adottano per breve tempo i termini della destra è errata. La mentalità che porta le persone a votare AfD esisteva molto prima della sua fondazione, ma non era legata alle politiche di un partito. Ora ha un punto di connessione stabile”.

Se le persone votano sempre più massicciamente, ormai da vent’anni, per l’ultradestra, non lo fanno per dare un segnale ai partiti tradizionali, ma perché ne sposano convintamente i contenuti. Janine Patz, ricercatrice presso l’IDZ di Jena (Istituto per la democrazia e la società civile), fa notare che Sesselmann abbia parlato molto poco di politica locale e abbia invece “chiesto negoziati di pace con la Russia, la fine delle sanzioni e deportazioni di migranti più rapide. Sono tutti argomenti che non rientrano affatto nell’ambito delle competenze e delle azioni di un amministratore distrettuale”. Il segnale che gli elettori hanno voluto lanciare, precisa il suo collega Axel Salheiser, è piuttosto il rifiuto dei partiti democratici.

Questo ci porta alla seconda interpretazione più in voga per motivare la quarta ondata di ultradestra: il disagio economico. Sonneberg potrebbe, a questo proposito, rappresentare un microcosmo della crisi vissuta dal modello capitalistico occidentale: invecchiamento della popolazione (quasi il 30% ha più di 65 anni), carenze nei servizi pubblici (tanto per capirci, ogni medico di famiglia nella zona ha quasi 2300 pazienti di cui occuparsi), improvviso aumento degli stranieri (passati da circa l’1% all’8,3% del totale in una decina di anni), disoccupazione giovanile e stagnazione dei redditi. I passi indietro nel welfare state e le disuguaglianze della globalizzazione spingerebbero quindi i “dimenticati” dai grandi processi economici mondiali fra le braccia di populisti e radicali di destra. La vittoria di Trump alle presidenziali del 2016 e la Brexit sarebbero stati gli eventi più significativi di questo riflusso.

Questa tesi trova effettivamente un riscontro nell’evoluzione della composizione elettorale delle nuove destre fin dalla terza ondata, fra gli anni Ottanta e Novanta. In quel frangente, partiti come la Lega Nord, l’FPÖ e il Front National si sono proletarizzati, conquistando segmenti sociali nuovi, storicamente di sinistra. Nelle sue campagne, il magnate milionario Trump ha pescato consensi fra i lavoratori dei cantieri e delle grandi fabbriche, soprattutto bianchi, e la stessa Meloni risulta la più votata dagli operai. La spiegazione che viene di solito data è che i lavoratori con minori specializzazioni siano penalizzati a tutto tondo dalla globalizzazione, sia dalla concorrenza di paesi con tutele sindacali inferiori, sia dalle esternalizzazioni, sia dai fenomeni migratori, che riguardano proprio i quartieri in cui vivono i ceti meno abbienti.

Eppure, queste riflessioni non sembrano cogliere il quadro complessivo. Le destre della quarta ondata poggiano su una vasta coalizione di gruppi sociali, i cui interessi sono spesso incompatibili: pensionati, operai, commercianti, artigiani, imprenditori e liberi professionisti. Quando sono interpellati sulle ragioni della loro preferenza per le nuove destre, come nel caso di Alternativa per la Germania, gli elettori tendono poi a non citare le soluzioni per l’economia, ma per l’immigrazione. Raramente l’economia è infatti nei punti centrali dei programmi. Quando vi compare, sono riciclate proposte di impronta neoliberale, non molto diverse da quelle della destra classica. L’impegno di AfD e delle destre radicali è un altro per Heitmeyer: “Promett[ono] di risolvere i problemi socio-economici in modo culturale. Il presente globalizzato, percepito come caos, deve essere eliminato e va ripristinato un ordine originario. Si tratta sempre di ‘riprendere il controllo’”. E così combattere l’immigrazione produrrebbe un aumento dei posti di lavoro e dei salari; la difesa della famiglia tradizionale salverebbe la natalità e quindi le pensioni; il recupero dei valori tradizionali e della religione attenuerebbe infine l’individualismo, la precarietà, il senso di alienazione.

Non a caso, una delle strategie più battute è quella delle guerre culturali, in cui la competizione politica si tramuta in lotta per preservare il proprio stile di vita, se non addirittura la propria esistenza. Le destre radicali si dipingono come le eredi autentiche degli usi e costumi popolari, contrapposte a una sinistra elitaria, cosmopolita e letteralmente folle che vuole abolirli.

Questa propaganda ha trovato la strada spianata anche a causa della depoliticizzazione di molti settori della sfera pubblica, come l’economia, che è stata trasferita a una dimensione di ineluttabilità storica dove né gli Stati nazionali né tantomeno le classi sociali o i singoli individui hanno voce in capitolo. La sinistra si è volentieri accodata a questa retorica sui competenti solo in apparenza neutrale e si è appellata a un autorevole vincolo esterno – fosse l’Unione Europea o il semplice parere degli esperti o dei mercati finanziari – sperando così di mostrare populisti e radicali di destra come incapaci e inaffidabili, missione tuttavia fallita per le ripetute crisi economiche e sociali. Il risultato non è stato solo di abbandonare in una prospettiva di atomizzazione le proprie classi sociali di riferimento, ma anche di perdere peculiarità rispetto alla destra neoliberale, rinunciando a ogni visione alternativa. Alla fine, in questo abbraccio della sinistra ai tecnici, il radicalismo culturale delle nuove destre è apparso a molti l’unica occasione di rompere un sistema economico elitario.

La quarta ondata non sarebbe comunque stata possibile senza un processo di lenta normalizzazione sui media. L’ultimo esempio è la rivista tedesca Stern, che fra le polemiche ha dedicato la copertina alla leader di AfD, fotografata in una posa da celebrità con ambizioni di cancellierato, e le ha domandato: “Che cosa può fare oltre a odiare, signora Weidel?” Come nota ancora Mudde, ”la copertura mediatica non arriva a modificare le posizioni sulle questioni politiche, ma determina quali questioni saranno considerate importanti dagli elettori”, ovvero l’agenda setting, cosicché “quando i media si concentrano quasi esclusivamente su tematiche come crimine, corruzione, immigrazione e terrorismo – a spese, per esempio, di educazione, abitazioni e welfare – rendono indirettamente più rilevanti i partiti e le politiche della destra radicale populista”.

Spesso tali cambiamenti di tono sui mezzi di comunicazione avvengono con un sottile espediente, osserva lo storico Aristotle Kallis, nella forma cioè di deroghe alla norma. Senza un senso angosciante di urgenza, non si verrebbe meno ai “principi fondamentali di non discriminazione e rispetto per le minoranze. […] Questo particolare tipo di ‘licenza di odiare’ ha un potente effetto di alterazione sugli stati individuali e collettivi di dissonanza cognitiva”. In questo modo, ciò che era indicibile diventa immaginabile, seppur per il breve tempo dell’emergenza. Senza il securitarismo di Minniti in materia di immigrazione, durante il governo Gentiloni, probabilmente né la Lega né poi Fratelli d’Italia avrebbero goduto del credito per restringere il sistema di accoglienza o invocare il blocco navale.

Lo slittamento a destra del dibattito avviene quindi quasi nell’inconsapevolezza generale e permette il camuffamento dell’estremismo dietro la confortante facciata del buon senso. Ad avvantaggiarne la presentabilità concorre anche il fatto che, da un lato, sono ormai gli stessi partiti istituzionali a radicalizzarsi, come i repubblicani americani o i Tories inglesi, e che, dall’altro, le nuove destre tentano di distanziarsi da un passato ingombrante attraverso abili operazioni di rebranding (si veda la dédiabolisation di Marine Le Pen). Gli allarmi contro il pericolo fascista perciò non funzionano più e l’idea di un “cordone sanitario”, già strategicamente di dubbia efficacia perché accentua la vittimizzazione delle destre radicali, perde la sua ragion d’essere.

Il tabù della collaborazione, di cui l’Italia con Berlusconi è stata un’anticipatrice, sta cadendo in un paese dopo l’altro, senza generare i moti di indignazione degli anni Novanta e Duemila. Anzi, nemmeno gli scandali interni e internazionali sembrano scalfire le destre radicali: l’exploit di AfD è coinciso con la sua classificazione come “caso sospetto” di minaccia all’ordine democratico da parte dei servizi segreti tedeschi. Ribolle nella nostra società una crescente domanda di autoritarismo, come emerge da una recente indagine nella Germania orientale, dove metà della popolazione chiede un “partito forte” che incarni la “comunità nazionale”.“Non credo che questi siano necessariamente fenomeni transitori”, conclude Heitmeyer. “Le crisi che ci hanno accompagnato dall’inizio del millennio, causate non da ultimo dal sistema capitalista, sono anche cambiate qualitativamente da crisi in singole aree a eventi multipli e sistemicamente rilevanti”. Potremmo insomma essere entrati, come argomenta il politologo americano Herbert Kitschelt, in una nuova fase politica della post-industrializzazione, in cui la presenza della destra radicale non è più l’eccezione, ma la normalità.






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