Soul Makossa – di Manu Dibango
Cinquant’anni fa la musica dell’Africa subsahariana fa la sua trionfale entrata in scena nelle classifiche, nelle sale e nelle discoteche di tutto il mondo
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Cinquant’anni fa la musica dell’Africa subsahariana fa la sua trionfale entrata in scena nelle classifiche, nelle sale e nelle discoteche di tutto il mondo
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La versione originale di “Soul Makossa”
Cinquant’anni fa, nel 1972, usciva Soul Makossa di Manu Dibango, un brano spartiacque nella percezione della musica africana a livello mondiale.
Fino a mezzo secolo fa la musica dell’Africa subsahariana era quasi completamente assente dal panorama della musica globale. Le musiche tradizionali del continente nero erano un oggetto di studio e di documentazione sul campo per un ristretto numero di etnomusicologi. A partire dagli anni trenta, col successo negli Stati Uniti dei primi brani di musica provenienti da Cuba, la musica africana comincia ad essere presente sulla ribalta internazionale essenzialmente per “interposta persona”, attraverso la musica afrocubana.
Nella stessa Africa, gli esempi di musica afrocubana – in particolare le canzoni di genere “son” del Trio Matamoros – che fra gli anni trenta e gli anni cinquanta arrivano con i dischi portati dalle navi che giungono dagli Stati Uniti e dai Caraibi, danno a chi li ascolta l’emozionante sensazione di trovarsi di fronte ad una musica africana moderna; specialmente nel Congo belga, la musica afrocubana rappresenta una potente sollecitazione alla creazione di una musica locale urbana non più tradizionale: è l’innesco di un processo da cui nasce la rumba congo-zairese, un filone destinato a giganteggiare per decenni nella musica africana moderna.
Intanto, dagli anni quaranta, un ampio interesse per la musica afrocubana si sviluppa nel jazz (Dizzy Gillespie, Stan Kenton…), spesso con il coinvolgimento di percussionisti latini, in molti casi cubani. Poi il jazz comincia a guardare e ad ispirarsi anche più direttamente all’Africa. Negli anni sessanta negli Stati Uniti la musica africana comincia a fare capolino. Nel ’60 fa molto effetto e vende parecchio Drums of Passion, album registrato dal percussionista nigeriano Babatunde Olatunji, arrivato negli Stati Uniti negli anni cinquanta per completare i suoi studi universitari: Olatunji collabora con molti jazzisti di primo piano, fra cui Max Roach e John Coltrane. Nel corso del decennio poi si affermano sulla scena statunitense la cantante Miriam Makeba e il trombettista Hugh Masekela, entrambi sudafricani, che hanno scelto l’esilio per sfuggire all’apartheid: ma negli anni sessanta il loro successo e la loro notorietà rimangono sostanzialmente circoscritti appunto agli Stati Uniti.
È con Soul Makossa che per la prima volta un musicista africano mette a segno un hit mondiale.
Nel 1972, tra febbraio e marzo si tiene l’ottava edizione della Coppa d’Africa, ospitata dal Camerun, paese d’origine di Dibango. Per l’occasione il sassofonista crea un inno per celebrare l’equipe camerunese, che viene pubblicato come singolo, accompagnato come lato B da un brano a cui Dibango non annette molta importanza, Soul Makossa. Ma oltre Atlantico un Dj trova una copia del disco in un negozio di Brooklyn e comincia a suonarlo nelle sue serate. Il brano viene adottato da Dj di emittenti di New York, in particolare di WBLS, all’epoca la più popolare stazione afroamericana della città. Ristampato come singolo negli Stati Uniti, a partire dal ’73 Soul Makossa si impone come uno dei brani emblematici degli anni settanta, con una sensibilità che anticipa anche la disco music.
In Soul Makossa Dibango ha messo insieme ritmi camerunesi e soul, confezionando il brano con il mestiere che gli deriva da una lunga gavetta nel jazz e nella musica leggera in Francia (nei sessanta è stato fra l’altro direttore musicale del gruppo del popolare cantante Nino Ferrer) e dalla sua frequentazione della musica africana in Congo e in altri paesi.
Dodici anni dopo l’ondata delle indipendenze africane del 1960, con Soul Makossa l’Africa si affaccia sulla scena musicale mondiale in vesti avanzatissime e spregiudicate, che non lasciano nessuno spazio al primitivismo e alla subalternità dell’immagine coloniale del continente.
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