I gigacapitalisti li arricchiamo noi
I “visionari” di oggi non sono più coloro che si battono per un mondo migliore, ma quelli che fanno di tutto per arricchirsi controllandoci (con la nostra benedizione)
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I “visionari” di oggi non sono più coloro che si battono per un mondo migliore, ma quelli che fanno di tutto per arricchirsi controllandoci (con la nostra benedizione)
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I “visionari” di oggi non sono più coloro che si battono per un mondo migliore, ma quelli che fanno di tutto per arricchirsi controllandoci (con la nostra benedizione)
In realtà Zuckerberg lo sapeva benissimo il perché e non era perché si fidano. Piuttosto, perché siamo conformisti per vocazione (troppo faticoso essere autonomi e responsabili), perché ci piace il gossip, perché siamo tutti narcisisti, perché abbiamo la volgare tendenza – praticamente illimitata e facilmente eccitabile – a mettere in piazza i fatti nostri in cambio di un po’ di divertimento e di intrattenimento, oltre che dei fatti degli altri. Se poi tutto questo genera dati e quindi lucrosissimi profitti per chi gestisce il social, dati che noi cediamo gratuitamente producendo la più grande agenzia di spionaggio e di pubblicità mai realizzata nella storia – appunto Facebook (oggi Meta) secondo lo scrittore John Lanchester – siamo coglioni due, tre, mille volte di più.
“Ed è proprio grazie alla conoscenza approfonditissima di quel che ci passa nella capoccia che Zuckerberg diverrà il più corteggiato dall’industria pubblicitaria”, permettendole di invadere ancora di più la nostra vita con messaggi non più generalisti bensì mirati e personalizzati grazie ad algoritmi predittivi (dei nostri comportamenti futuri) e di accompagnamento, a loro volta generati grazie alla nostra profilazione. Così ci trasformiamo in merci che si mettono in vetrina in rete in dati, cioè in numeri che vanno a comporre il Big Data/Grande Fratello – e forse è anche peggio che essere merci e cose/res (ne scriveva, tempo fa – di reificazione, di alienazione – un signore di nome Karl Marx, chissà cosa direbbe oggi…).
Dati ad elevatissimo valore di scambio (ancora Marx) per il capitale (e i capitalisti) e dove la nostra vita intera è messa a profitto per pochi in quel capitalismo della sorveglianza magistralmente descritto da Shoshana Zuboff nel suo saggio omonimo (Luiss University Press). Ovvero: la sorveglianza di massa da parte del capitalismo, peggio dei totalitarismi politici del Novecento.
Eppure, guai a vivere senza social, guai a non ricercare sempre più like – che sono poi la tecnica di human engineering usata per generare la nostra dipendenza dai social, fabbriche per la produzione di dati. Sì, dipendenza, Facebook lo sa e ne approfitta grazie alla dopamina, neurotrasmettitore del piacere, che ogni like produce/attiva in noi, smaniosi di essere visibili e apprezzati dagli altri e di avere tanti amici – e amicizia era la parola magica di Facebook ai suoi inizi, ve lo ricordate?
Amicizia, condivisione e like sono quindi una merce/cosa ma soprattutto sono un mezzo di produzione di dati, in una società che deve essere per altro sempre più individualista, egoista e competitiva, ma dove è lo stesso sistema che ci de-socializza – il tecno-capitalismo – che insieme produce poi per noi le opportune compensazioni emotive (i social, appunto; il dover condividere), per farci sentire meno soli.
E se ancora pensate a zio Paperone che nuotava nell’oro, dimenticatelo. Ora ci sono i gigacapitalisti – e li abbiamo creati noi e ogni giorno (navigazioni in rete, selfie, cookies accettati, condivisione, eccetera) li arricchiamo sempre di più (siamo coglioni, appunto). Perché se i ricchi sono sempre esistiti – scrive Riccardo Staglianò, giornalista di Repubblica, in un suo agile e leggibilissimo (e godibilissimo) Gigacapitalisti (Einaudi) – quelli di una volta erano mega-capitalisti, oggi sono diventati giga-capitalisti. E ogni giorno, come fedeli devoti, tutti ne adoriamo la persona e/o il brand, perché non viviamo senza smartphone, senza like e andiamo in panico se abbiamo pochi followers o se non compriamo qualcosa su Amazon o se non condividiamo l’ultimo selfie.
Nell’immaginario collettivo – aggiungiamo – sono visti come visionari e futuristi perché (dicono di sé) costruiscono per tutti noi un futuro meraviglioso e amichevole, fatto di armonia e di progresso. In realtà futurismo è termine che dobbiamo a Marinetti per il quale (1909) una vita autentica doveva essere fatta di culto della macchina, di velocità e di accelerazione dei ritmi di vita, del prodotto industriale, insieme al mito dell’azione e del fare senza pensare, delle parole in libertà, della guerra come igiene del mondo. Che è esattamente ciò che perseguono i gigacapitalisti e la Silicon Valley di oggi – dove la macchina è la rete e lo smartphone; l’accelerazione è il tempo reale e l’istantaneità; l’azione è il fare a produttività crescente, senza pensare; le parole in libertà sono blog e fake news; e la competizione economica è la guerra come igiene neoliberale del mondo – vendendocela però per progresso. Un tempo, capaci di visione e di essere modelli di etica erano uomini e donne come Robert Kennedy, Martin Luter King, Gandhi, il dottor Schweitzer (qualcuno se lo ricorda?), Mandela, Maria Montessori, Simone Weil, Simone de Beauvoir, ecc.; oggi, a guardare i media mainstream, visionari sono solo i gigacapitalisti. Come siamo caduti in basso.
Ma torniamo a Staglianò, che scrive (e sue sono anche le citazioni iniziali di questa nostra riflessione): “I patrimoni dei Bill Gates, Jeff Bezos, Elon Musk, Mark Zuckerberg del mondo hanno raggiunto dimensioni incompatibili con un buon funzionamento della democrazia. Nel senso che quelle spaventose quantità di denaro si traducono inevitabilmente in altrettanto potere. Compreso quello di interferire con le leggi che decidono ad esempio quante tasse far pagare e a chi – e vale la pena rammentare come questi signori hanno tutti almeno due mestieri: il proprio e quello di elusore fiscale. Studiandone le biografie, il topos più ricorrente e storicamente inedito [in realtà, aggiungiamo, non proprio inedito, pensiamo alla Compagnia delle Indie orientali] è che si tratta di privati cittadini in grado di fare cose prima appannaggio solo degli Stati”.
Ad esempio: Bezos “si candida a diventare l’emporio unico dell’umanità. Prima di Musk nello spazio c’erano andati solo Russia, Stati Uniti e Cina. E infine c’è Zuckerberg, di cui sempre più commentatori (e investitori) chiedono la testa per offrirla in pasto alla pubblica opinione scandalizzata [in realtà, non più di tanto] dalla serie crescente di rivelazioni su un cinismo aziendale innalzato a forma d’arte. E parliamo di uno che, se la sua creatura fosse appunto una nazione, con quasi tre miliardi di cittadini, sarebbe a capo di un Paese più popoloso della Cina. Con un livello di sorveglianza, sia detto per inciso, che Pechino si sogna”. Ovvero, abbiamo a che fare con imprese della manipolazione attraverso l’economia dell’attenzione – un altro modo di fare human engineering – perché più tempo passiamo sui social attirati da “soldi, sangue e sesso” oltre che da fake news e dalla violenza verbale, più dati produciamo e più profitti creiamo per i social.
Eppure, “i gigacapitalisti sembrano più amati che disprezzati”, scrive anche Staglianò: il che la dice lunga sulle nostre psico-patologie, sul nostro confondere libertà apparente con asservimento sostanziale, sul nostro credere che in rete tutto sia gratis e che tutto sia veramente nuovo e diverso dal passato. Colpa anche “dell’eterno elemento afrodisiaco del potere, di politici spesso non all’altezza della situazione [se non collusi; e rimandiamo al nostro Uber files] e di tanti giornalisti – oh quanti, che si bevono la retorica siliconvallica di rendere il mondo un posto migliore o che di ogni nuovo smartphone non trovano di meglio da dire che è il migliore di sempre – giornalisti che preferiscono vestire i panni dei cheerleaders che quelli dei guastafeste”.
Guastafeste che è – invece e per fortuna – Riccardo Staglianò. Al cui libro rinviamo per i dettagli e per attivare in tutti – speriamo – un po’ di doverosa indignazione.
Ma poi: cosa fare e come “contro una manciata di plutocrati che non ambiscono a influenzare solo che cosa compriamo, ma anche che cosa pensiamo?” E che appaiono davvero too big to fail? Certo, non è facile, eppure “bisogna provarci”. Con “tasse giuste, leggi migliori, più diritti ai lavoratori sfruttati e una nuova consapevolezza collettiva” – dice Staglianò. Un tempo però queste erano idee normali in una società giusta; oggi sono l’eccezione in una società sempre più ingiusta – con Stati che anzi fomentano e sostengono deliberatamente l’elusione/evasione fiscale del Big Tech. Dobbiamo quindi tornare alla normalità e a un vivere giusto e riscoprire un concetto che il tecno-capitalismo (neoliberalismo & tecnologia) ci ha fatto dimenticare: la giustizia sociale. Cui va oggi aggiunta la giustizia ambientale.
Cosa non facile, appunto. Però bisognerebbe provarci.
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